L’arte digitale di Carlo Busetti – Di Daniela Larentis
Il digital artist trentino racconta un’arte che trasforma emozioni quotidiane in visioni digitali intime e autentiche – L’intervista»

Carlo Busetti, UCR01.
In un’epoca in cui l’arte digitale può facilmente confondersi con la produzione dell’intelligenza artificiale, il percorso dell’artista trentino Carlo Busetti si distingue per la sua natura autenticamente umana. Ingegnere di formazione e digital artist per vocazione, Busetti ha scelto da molti anni uno strumento tecnologico come l’iPad per esprimere la sua creatività.
Per lui, la penna digitale è l’equivalente contemporaneo del pennello: un prolungamento del gesto, un mezzo che consente di tracciare idee, emozioni e visioni con precisione e libertà.
Nulla, nelle sue opere, è generato da algoritmi. La sua è un’arte che coniuga sperimentazione e sensibilità, rigore e immaginazione, dimostrando che gli strumenti digitali possono essere una tela viva e personale, capace di raccontare storie intime e universali, anche nell’era della riproducibilità automatica.
Le sue opere sono fatte di gesti, non di algoritmi; di emozioni, non di codici. Un’arte che nasce dal quotidiano, da tutto ciò che spesso ci sfugge, ma che lui riesce a trasformare in segni, forme, colori.
È lo stesso Busetti a raccontarlo con parole sue:
«Quando vi fermate davanti a una mia opera, vi chiedo solo una cosa: lasciatevi andare. Non cercate per forza un significato preciso, non aspettatevi di capire tutto subito.
«La mia arte nasce proprio dal quotidiano, da quei momenti, situazioni, che viviamo ogni giorno ma che spesso non notiamo davvero.
«Quello che vedete è una specie di diario personale, ma scritto con immagini invece che con parole. Linee, colori, forme: sono il mio modo di raccontare.
«Non c’è un’unica chiave di lettura, e ogni sguardo porta con sé una lettura diversa. È come un gioco silenzioso tra me e voi, dove ognuno può trovare il proprio significato.»
Cenni biografici.
Nato a Cles nel 1964, Carlo Busetti è un ingegnere civile-ambientale e digital artist.
Fin dagli anni '80, ha coltivato la passione per il disegno, iniziando con opere su carta per poi approdare al digital painting, utilizzando l’iPad come strumento principale.
Le sue opere si distinguono per uno stile definito «surrealismo digitale», ispirato al cubismo astratto e onirico di artisti come Miró, Kandinsky e Klee.
Busetti ha esposto in numerose mostre in Italia e all'estero, tra cui la Triennale di Roma, la Biennale di Verona, il Palazzo Zenobio a Venezia, a Parigi e in altre importanti città.
Abbiamo avuto occasione di porgergli alcune domande.
Carlo Busetti: Il diario invisibile della quotidianità I, 2025 e Il diario invisibile della quotidianità II, 2025.
Lei è un digital artist e ci tiene a sottolineare di non utilizzare l’IA. Qual è il suo processo creativo?
«La mia arte nasce da un gesto umano, non da un algoritmo. Uso l’iPad per disegnare con le dita o con la penna digitale, dando vita a opere frutto di un’intuizione personale.
«Ogni tratto è pensato, ogni sfumatura voluta. Non utilizzo l’intelligenza artificiale perché credo nell’emozione e nella manualità come parti fondamentali del processo creativo.
«Il mio lavoro è una continua trasformazione: parto da elementi comuni, li scompongo e ricompongo, cercando di restituire allo spettatore qualcosa che sorprenda, che emozioni.»
Può condividere una riflessione sull’uso dell’intelligenza artificiale nell’arte?
«È un tema che mi sta molto a cuore. L’intelligenza artificiale, quando viene usata come strumento per generare immagini, pone una questione interessante e forse anche un po’ paradossale: oggi si possono ottenere risultati sorprendenti anche senza avere conoscenze specifiche di disegno o di software grafici tradizionali.
«Basta scrivere un prompt, una descrizione testuale, e l’IA genera l’immagine. È un approccio completamente diverso rispetto a quello che utilizzo io, dove tutto passa dal gesto, dalla manualità, dalla sensibilità individuale.
«Nel mio lavoro, ogni tratto nasce da un’interazione diretta e consapevole con lo strumento. Uso app come Procreate, che richiedono una certa esperienza tecnica, ma soprattutto una connessione continua tra mente, mano e schermo. Con l’IA, invece, il ruolo dell’artista cambia: non si lavora più direttamente sulla materia visiva, ma si diventa una sorta di direttore creativo.
«L’opera si costruisce per passaggi successivi, attraverso descrizioni testuali e continue revisioni del risultato. Anche questo richiede intuito e capacità di sintesi, ma è evidente che il tipo di coinvolgimento è molto diverso.
«L’artista, in quel caso, affida parte del processo a una macchina, mentre nel mio approccio tutto nasce e si sviluppa attraverso la mia mano e la mia visione.»
Quindi, assumendo questa prospettiva, quella ottenuta con l’intelligenza artificiale la si potrebbe comunque considerare una nuova forma d’arte?
«Sì, senza alcun dubbio. L’intelligenza artificiale non elimina la creatività umana: la ridefinisce, la sposta su un altro piano. È una nuova modalità espressiva che, come tutte le innovazioni, apre orizzonti inediti. Ma credo anche che sia fondamentale distinguere tra il risultato finale e il processo che ci ha portati fin lì.
«Perché è proprio nel come si crea che, secondo me, si gioca la parte più interessante dell’opera. Con l’IA l’artista si affida a un sistema, trasformandosi, come ho detto prima, in un direttore creativo che affina prompt testuali. Anche questo è un percorso creativo, ma molto diverso dal mio.»
Per avviare il filmato seguente cliccare questo link.https://www.youtube.com/watch?v=PnMmP011tDI
Come si è evoluto il suo percorso artistico nel tempo?
«Il mio percorso è iniziato negli anni ’80, con il disegno su carta. Disegnare era un modo per esprimermi, per dare forma a quello che avevo dentro, e lo facevo con gli strumenti tradizionali, come matite, penne, pastelli. Poi, con l’avvento delle nuove tecnologie, ho iniziato a esplorare il digitale.
«L’incontro con l’iPad è stato determinante: mi ha offerto una libertà espressiva nuova, mi ha permesso di portare con me la mia tela ovunque, di creare in qualsiasi momento, senza limiti di spazio o materiali.
«Nel tempo, ovviamente, i dispositivi sono cambiati, si sono evoluti. Sono usciti nuovi modelli, con prestazioni sempre più avanzate. Ma io ho sempre continuato a usare Procreate, e lo uso in modo piuttosto essenziale.
«Non mi interessa sfruttare tutte le sue potenzialità tecniche. Non cerco effetti speciali, preferisco concentrarmi sul contenuto, su ciò che voglio raccontare e su come farlo arrivare allo spettatore.
«È una scelta consapevole: la semplicità dell’approccio mi permette di restare fedele alla mia visione, di non farmi distrarre dalle infinite possibilità del mezzo.
«Negli ultimi anni mi sono anche posto una domanda importante: come rendere la mia arte fruibile da un pubblico più ampio? Non tutti desiderano acquistare o contemplare un quadro tradizionale.
«Così ho iniziato a esplorare altre modalità di diffusione: portare l’arte fuori dai luoghi convenzionali, applicarla a oggetti, materiali, superfici. L’arte ha la capacità di parlare senza parole, di evocare emozioni, e può entrare in dialogo anche con il mondo del design, della moda, dell’impresa. Lì ho trovato nuove sfide e nuove ispirazioni.»
Ci può parlare brevemente di alcuni suoi progetti di arte applicata?
«L’idea di limitare l’arte alla sola tela, pur conservando un valore storico e culturale, oggi mi sembra riduttiva rispetto alle opportunità offerte dalla tecnologia e dalla creatività.
«Lavorando con strumenti digitali, le mie opere nascono come file: entità flessibili, che possono essere trasferite su diversi supporti senza perdere significato. Anzi, questa trasformazione spesso amplia il raggio d’azione e il potenziale comunicativo dell’opera.
«Negli ultimi anni la mia ricerca si è orientata verso l’arte applicata, ovvero la possibilità di veicolare immagini, segni e narrazioni visive su oggetti e materiali, che diventano essi stessi supporti espressivi.
«In ambito fashion, ad esempio, ho progettato e realizzato prototipi di borse in pelle, di alta qualità e artigianalità, in cui la grafica digitale è parte integrante del design, fondendo estetica e funzionalità. Nel settore sportivo ho lavorato su diversi progetti.
«Uno di questi riguarda l’opera Involarte, che è stata riprodotta in edizione limitata sul telaio di una bicicletta Pinarello e su una maglia Castelli, all’interno di una collaborazione esclusiva con il ciclista Gianni Moscon.
«Sempre legata al ciclismo, ho curato la grafica di una linea di divise da gara per una squadra locale, portando l’arte anche nel gesto atletico e nella dimensione della performance.
«Ho esplorato anche il campo dei termoarredi, trasformandoli in elementi di design artistico. Si tratta di un oggetto che incarna un dialogo tra arte contemporanea, passione sportiva ed eccellenza dell’artigianalità italiana, prodotto in appena due esemplari.
«Uno di questi ha trovato la sua collocazione d'onore all'interno del Museo di Maradona della famiglia Vignati, nei suggestivi Quartieri Spagnoli, un luogo che non è soltanto un museo, ma un vero e proprio tempio per i devoti del Pibe de Oro e per chiunque desideri immergersi nel vibrante culto napoletano per il grande campione.
«L’altro esemplare invece è stato collocato nello Sport Hotel Rosatti che anche quest’estate ospiterà il Napoli in ritiro a Dimaro, in Trentino. Tra le esperienze più recenti c’è l’applicazione della mia arte su una poltrona, esposta alla Design Week di Genova.
«Sono progetti che mi permettono di portare il mio linguaggio visivo in contesti nuovi, facendo dialogare arte e quotidianità in modi sempre diversi.»
Per avviare il seguente filmato cliccare questo link.https://www.youtube.com/watch?v=Dl7vL-zRB-Q
Come sono nate le due opere più recenti presentate all'Aquila?
«In occasione della mostra Artefatto dei sapori, presso il ristorante Lo Scalco dell’Aquila, ho presentato due opere intitolate Il diario invisibile della quotidianit”.
«Il titolo riflette il filo conduttore che accomuna le mie opere alla cucina dello Scalco: entrambe nascono da memorie, emozioni, suggestioni quotidiane.
«Il mio linguaggio visivo, sospeso tra astrazione e figurazione, vuole rendere visibili quelle sensazioni fugaci che spesso sfuggono allo sguardo, così come un piatto può racchiudere ricordi, contrasti e armonie.»
Ce le descrive?
«Le due opere non vogliono semplicemente rappresentare ciò che si vede nel mondo della gastronomia. Il mio intento non era illustrativo, ma evocativo: far emergere le emozioni, i ricordi e le percezioni sottili che accompagnano l’esperienza del gusto e della convivialità.
«Attraverso forme, colori e composizioni dinamiche, ho voluto offrire una nuova chiave di lettura del quotidiano, restituendogli profondità attraverso il linguaggio dell’arte visiva.
«La prima opera è una sorta di natura morta contemporanea, animata da movimento ed energia. Elementi come anguria, formaggio, moka, bicchiere, forchetta e torta si fondono in una composizione cromatica vivace, trasformando gesti ordinari in un’esperienza visiva.
«La seconda, più simbolica e astratta, propone un dinamismo fluido: una forchetta da cui si dipana un vortice che evoca la pasta, un pesce stilizzato che suggerisce sapori marini. I colori – rosso, giallo, blu – corrispondono a sensazioni gustative, in un intreccio visivo che invita a scoprire il gusto attraverso lo sguardo.»
Progetti futuri?
«Mi piacerebbe continuare a creare, a collaborare con aziende, traducendo i loro valori in opere d’arte.
«Vorrei anche organizzare in futuro una mostra personale: credo che i tempi siano maturi.
«L’obiettivo è portare l’arte ovunque, renderla accessibile e parte integrante della nostra quotidianità.»
Daniela Larentis – [email protected]
Massimo Vignati, fondatore del museo dedicato a Maradona, accanto all'opera-termoarredo di Carlo Busetti.