El Camino de la Vera Cruz/ 4 – Di Elena Casagrande
Tra gli Aragonesi, un po’ chiusi e schivi, si nascondono persone dal cuore d’oro, come Adina o Amadeo, che si preoccupano per noi senza chiedere nulla

La Chiesa di San Martín a Morata de Jiloca.
Link alla puntata precedente.
Il centro di Catalayud, sospeso tra passato e presente, racconta una storia multiculturale
Nel
tardo pomeriggio entriamo a Catalayud, città sorta vicino alla Bilbilis
celtiberica e alla Bilbilis Augusta romana e poi ricostruita accanto
alla rocca araba di Ayyub.
La piazza maggiore, un tempo sede del
mercato, è circondata dalle caratteristiche «case storte», dai poggioli
continui lungo le facciate e dalle colonne (talvolta romane) a piano
terra. Un tempo brulicava di negozi.
Teo ha fretta di timbrare per cui
non si mette in posa davanti alla statua della fruttivendola. Trova la
chiesa di San Juan El Real e ci entra quasi di corsa.
In sacrestia
c’è don Justo che ha appena finito di dire Messa.
Saputo che siamo
pellegrini diretti a Caravaca de la Cruz, sorride felice, ci benedice e
ci chiede un favore: «Salutatemi il prete del Santuario di Caravaca. È
stato il mio insegnante al seminario».
La Piazza Maggiore di Calatayud.
Finalmente vediamo uno dei massimi esempi del Mudéjar di Aragona - Patrimonio Unesco
Nonostante
l’ora cerchiamo di visitare quanto più possibile: non dobbiamo perderci
assolutamente il chiostro, l’abside e soprattutto il campanile della
Collegiata di Santa María La Mayor.
Questa torre quattrocentesca di 72
metri, a pianta ottagonale, è infatti uno dei simboli dell’Arte Mudéjar
di Aragona, Patrimonio Unesco. La torre, vista dal basso, è davvero
impressionante.
E nel «barrio» (quartiere) si respira un’atmosfera
singolare, unica, frutto dell’eredità della convivenza - nei secoli - di
tre culture differenti: quella cristiana, quella ebraica e quella
islamica. Calatayud ha anche una parte moderna. Lì c’è il nostro hotel,
prenotato on line.
Al «Globales Castillo», non manca nulla. Neppure un
bel ristorante, frequentato anche dalla gente del posto: segno che si
mangia bene.
Il campanile di Santa María La Mayor a Calatayud.
Le acque scure e veloci del fiume Jiloca, tra stretti argini erbosi, mi ipnotizzano
Dopo
Paracuellos col suo centro termale dei primi del ‘900, entriamo nella
valle del fiume Jiloca. Continuiamo a camminare accanto alla vecchia
ferrovia.
Stanno sistemando i ponti di metallo, verniciandoli di un bel
rosso carminio. Passo dopo passo vengo quasi rapita dalla forza
dirompente e dal colore scuro delle acque del fiume, che scorrono in
direzione contraria alla nostra.
«Sembra che la corrente obblighi a camminare velocemente!» – dico a Teo.
Lui
annuisce. Lungo il tragitto c’è qualche paesino, piccolo, ma ognuno ha
splendide chiese di ispirazione moresco-cristiana, dichiarate beni di
interesse culturale.
Quella gotica di Maluenda è la sorpresa della
piazza centrale, raggiunta da una viuzza serpeggiante sotto un arco
medievale.
Entrando a Maluenda.
Davanti ad un panino al prosciutto iberico la vita non può che sembrare meno dura
Alla
caffetteria Churrión ci rifocilliamo con «jamón, queso y tomate»
(prosciutto, formaggio e pomodoro), un «carburante» meraviglioso! Teo,
intanto, prova a prenotare da dormire a Villa Feliche, anche se è un po’
fuori dal cammino. Niente: è tutto pieno anche lì.
E Daroca è troppo
lontana. Che fare? Come sempre speriamo nella Provvidenza e ci
rimettiamo in marcia.
Anche a Morata de Jiloca c’è una bella chiesa
«arabeggiante», dalla facciata in mattoni rossi con intarsi in ceramica
bianca e blu.
È intitolata a San Martín de Tours, si vede dalla statua
sopra il portale centrale. Mando la foto a Cecilia. Lei e il suo
«scoanif» (ultimo nato, Martino) apprezzeranno.
Nel frattempo telefono
al comune di Fuentes de Jiloca, per capire se c’è un alloggio comunale o
un rifugio.
Mi consigliano di passare in ufficio. Ma, una volta
arrivati, il segretario comunale mi gela: «Non abbiamo un albergo.
L’unica è chiedere in piscina, alla ragazza del bar, è in gamba».
I paninetti del bar Churrión.
Adina di Fuentes de Jiloca, è un punto di riferimento per i pellegrini della Vera Cruz
Nella
zona «deportiva» (sportiva) c’è la baraonda. Tutti si divertono coi
gonfiabili della piscina.
Al baretto, affollatissimo, aspetto il mio
turno e poi spiego la situazione alla ragazza dietro al bancone.
Si
chiama Adina e subito, tra un’ordinazione e l’altra, si mette in moto
per cercare un posto per noi. Parla coi clienti, fa un paio di
telefonate e, alla fine, ci trova ospitalità in famiglia, da Amadeo.
Lui
ha proprio un bel carisma: si sente dai discorsi che fa, dalla
filosofia di vita e dalle frasi che ha scritto nel patio, dove l’albero
del paradiso rilascia un profumo celestiale. Dalla terrazza si può
godere della vista di tutto il paese.
Ci sentiamo a casa e non sappiamo
davvero come sdebitarci. L’indomani gli lasciamo il libro di Tulebras.
Le suore avevano ragione.
Fuentes de Jiloca vista dalla casa di Amadeo.
Murero è famoso per i giacimenti di trilobiti fossili del Cambriano
Ieri sera Adina aveva insistito per regalarci le brioche congelate per l’indomani.
«Saranno pronte per la colazione di domattina. Non troverete altro» – ci aveva detto, seria.
Infatti
è così. Lungo il cammino, dopo l’Eremo di San Rocco, stanno potando i
noci con quegli orribili macchinari col braccio meccanico che
distruggono tutto. Teo lavora al telefono. Il sentiero è un susseguirsi
di curve tra il fiume e la vecchia ferrovia, fino a Murero. Qui, nel
1862, il francese Edouard de Verneuil scoprì un giacimento
paleontologico di trilobiti fossili, risalenti al Cambriano e con parti
molli preservate. Il bar del «pueblo» (paese) non fa panini, perché non
ha pane. Neanche quando arriva la panetteria ambulante. È tutto
prenotato e non si sgarra. Al massimo un caffè. E l’unico tavolino
rimasto libero - ovviamente - è quello al sole.
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Il cammino prima di Murero.
Lungo la Valle del fiume Jiloca corre la voce che stanno passando due pellegrini italiani
«Meno male abbiamo incontrato Adina. Era davvero un angelo del cammino» – commento con Teo.
Una
signora seduta su una panchina, l’unica che si degna di scambiare due
parole, mi mostra lo stemma comunale: riporta uno scudo col trilobite.
Per lei il suo Comune è stupendo. Lo guarda ammirata. Onestamente
l’edificio sembra una costruzione anonima, niente di che, ma non la
deludo. Poco dopo ci raggiunge “el alguacil” (il funzionario comunale),
che ci chiede se siamo i pellegrini italiani che hanno dormito da
Amadeo. Teo ed io ci guardiamo con gli occhi sbarrati: le voci corrono
veloci lungo la valle del Río Jiloca! Gli diciamo di sì e lui subito ci
manda alla piscina, in cima al villaggio: praticamente una salita in
corda doppia. Là ci faranno due bruschette col pane avanzato.
A Murero.
Daroca, Porta di Ferro dell’Aragona, fu il baluardo cristiano in terra di frontiera
Arriviamo
a Daroca camminando su strada e su sterrato. Le mura, il castello e le
torri testimoniano la sua funzione di difesa, in terra di frontiera. Per
questo venne insignita del titolo di «città» e venne chiamata la Porta
di Ferro dell’Aragona. Accediamo dalla Puerta Baja, accanto alla fontana
delle venti cannelle. Andiamo subito all’hotel «Cienbalcones», che è
proprio lì vicino. Ci laviamo e poi via: c’è tanto da vedere. La Chiesa
di San Miguel è aperta. Due italiani ed un catalano, che formano un duo
di archi con clavicembalo, stanno facendo le prove per il concerto di
stasera. L’affresco gotico dell’Incoronazione della Vergine, in blu e
rosso, è stupendo. Anche alla Chiesa di Santo Domingo stanno provando.
Finalmente, poco dopo le 18, apre la Chiesa di Santa María de los
Sagrados Corporales (dei Sacri Corporali).
Cartolina da Daroca.
La storia del miracolo eucaristico di Daroca è datato 1239 Anno Domini
Al
suo interno si conservano i segni di un miracolo eucaristico. Si narra
che, nel 1239, il cappellano di Daroca, intento a dir Messa prima della
battaglia per la riconquista di Chío, venne interrotto dall’attacco
improvviso dei nemici. In tutta fretta subito nascose le ostie
consacrate nei suoi corporali, per scongiurarne la profanazione.
Terminato l’assalto le ostie vennero ritrovate sanguinanti. I sei
comandanti delle truppe cristiane, prima dell’offensiva finale, vollero a
tutti i costi fare la Comunione con quelle particole. Poi, legati i
corporali insanguinati a mo’ di stendardo su un’asta, scesero in
battaglia e vinsero. Ma ecco che lì cominciarono i problemi. Ciascun
capitano rivendicava, infatti, lo stendardo per la sua città. Non
riuscendo a mettersi d’accordo fecero decidere la questione ad una mula,
che vagò per 12 giorni coi corporali addosso. Quando arrivò a Daroca la
mula si accasciò e morì. Da allora i corporali sono conservati qui, in
una cappella all’interno della Chiesa di Santa Maria, dove abbiamo
potuto venerali anche noi.
Elena Casagrande – [email protected]
(La quinta puntata sarà pubblicata mercoledì 9 luglio 2025)
La Chiesa di Santa María de los Sagrados Corporales.