B. H. Lévy, «Il virus che rende folli» – Di Daniela Larentis

Partendo dal pensiero del filosofo, autore del libro, riflettiamo su un aspetto del confinamento al tempo del Covid-19, legato alle minacce che minano la nostra libertà

Bernard Henri Lévy.

Il filosofo e giornalista Bernard Henri Lévy, sempre attento ai temi che attraversano la contemporaneità, è autore di un intrigante volume pubblicato da La nave di Teseo dal titolo «Il virus che rende folli» (traduzione di Anna Maria Lorusso), nel quale individua i rischi maggiori sul piano sociale e morale del Covid-19: la sanificazione della società; l’idea di una «lezione del virus»; una lettura provvidenziale e punitiva della pandemia; il lato positivo del ritiro nelle proprie abitazioni; il confinamento e il riposizionamento dei valori della vita, la neutralizzazione di tutti gli altri problemi esistenti.
Il pensiero di fondo è quella di cercare di recuperare un’idea di vita che vada oltre l’esperienza terribile che noi tutti abbiamo vissuto e stiamo tuttora vivendo.
Dei cinque capitoli, il quarto evidenzia fra l’altro il cambio di prospettiva che è avvenuto in questo periodo. In particolare un passo ha catturato la nostra attenzione, il giudizio nei confronti dei cosiddetti giganti del web che fino a poco tempo fa venivano da molti ferocemente criticati e che ora vengono sempre più sdoganati a livello percettivo.
 
Leggiamo a pag. 79 a tale riguardo: «[…] E poi tutte quelle applicazioni digitali di cui, fino al giorno prima, consideravamo nemiche del genere umano, eccole diventare piattaforme di un commercio sano, igienico, dietetico, senza contatto, pulito! I famosi GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon), che, da pestiferi che erano prima della peste, sono diventati fornitori benedetti di telelavoro, teleinsegnamento, teleconsulenza, teletrasporto, telesorveglianza! E l’Organizzazione mondiale della sanità che, al culmine del panico, ha aderito alla campagna Play Apart Together e ha raccomandato a tutti i genitori del mondo di assicurarsi che i loro figli giocassero solo con i videogiochi (Konbini, 30 marzo 2020…)».
 
L’osservazione di Lévy fa riflettere, innanzitutto spendiamo un pensiero sull’educazione che, con l’apertura delle lezioni in presenza, presto si riapproprierà del compito di promuovere l’incontro.
I ragazzi, come del resto gli adulti, hanno bisogno di vivere le relazioni, la didattica a distanza, così come il lavoro cosiddetto agile, il tanto decantato smart working, possono essere utili nel breve periodo ma non sono certo privi di insidie.
Non ci può essere una relazione autentica se manca la reciprocità, siamo animali sociali, come già notava Aristotele, legati da rapporti di interdipendenza, non possiamo rimanere isolati a lungo.
Viviamo nell’era della globalizzazione, in un mondo altamente interdipendente, eppure gli uomini non si sono mai sentiti così soli.
Molti sono i dibattiti sulla globalizzazione dei media, c’è chi sostiene le Teorie del villaggio globale, considerandole positivamente come generatrici di nuove possibilità di informazione condivisa, e chi sposa le teorie dell’Imperialismo culturale, le quali hanno una posizione più critica.
 

Federico Rampini.
 
Secondo questo approccio i media costituirebbero una nuova forma di potere che le classi dominanti utilizzano per promuovere nuovi valori neoliberisti a discapito delle classi subordinate.
Ad indagare la tematica legata alle minacce che minano la nostra libertà, in particolare il concetto di web oligopolista, anche il noto giornalista e scrittore italiano Federico Rampini attraverso un interessante volume uscito qualche anno fa dal titolo «Rete padrona – Il volto oscuro della rivoluzione digitale» edito da Feltrinelli.

Egli considera la rete la distopia del nostro tempo: «[…] la velocità del cambiamento digitale è stata superiore a quello che ci aspettavamo e ormai la Rete penetra in ogni angolo della nostra vita: il lavoro, il tempo libero, l’organizzazione del dibattito politico e della protesta sociale, perfino le nostre relazioni e i nostri affetti. Ma la rete padrona – scrive – ha gettato la maschera. La sua realtà quotidiana è molto diversa dalle visioni degli idealisti libertari che progettavano un nuovo mondo di sapere e opportunità alla portata di tutti. I nuovi padroni dell’Universo si chiamano Apple, Google, Facebook, Amazon e Twitter […]».

Partendo da queste letture, condividiamo un’ulteriore piccola riflessione conclusiva.

Se durante il lockdown è stato utile potersi avvalere di internet, non dobbiamo però dimenticare che se smetteremo di fare acquisti nei negozi delle nostre città, di frequentare bar e ristoranti facendoci consegnare il cibo a casa, se resteremo troppo a lungo rintanati dentro le mura domestiche, i centri urbani a poco a poco cambieranno volto, le piazze si svuoteranno, le persone smetteranno poco a poco di incontrarsi, di parlarsi faccia a faccia, un cambiamento epocale che non potrà portare nulla di buono né sul piano economico che culturale e umano, e quando ne diventeremo consapevoli sarà già troppo tardi per tornare indietro.
 
«Alea iacta est» disse Giulio Cesare, secondo quanto riportato da Svetonio, attraversando il Rubicone nel 49 a.C.: il dado è tratto.
Quello in atto è un processo che è sotto gli occhi di tutti, un cambiamento non solo tecnologico ma soprattutto sociale e culturale che la pandemia ha reso più evidente.
Un cambiamento non irreversibile se ognuno di noi, una volta cessata l’emergenza sanitaria, tornerà a riempire le piazze, i negozi, i bar, i ristoranti, i luoghi di aggregazione.
La vita è là fuori, fra i nostri simili, un sorriso vero non sarà mai come la sua riproduzione attraverso l’emoticon della messaggistica e della rete e il calore di un abbraccio non potrà mai avere la potenza comunicativa di un qualsiasi altro surrogato tecnologico.

Daniela Larentis – [email protected]