Storie di donne, letteratura di genere/ 298 – Di Luciana Grillo

Simona Lo Iacono, «L’albatro» – Un romanzo tutto da leggere, tutto da assaporare nel continuo rincorrersi di ricordi, sorrisi e dolori

Titolo: L' albatro
Autrice: Simona Lo Iacono
 
Editore: Neri Pozza 2019
Genere: Narrativa di ambientazione storica
 
Pagine: 224, Brossura
Prezzo di copertina: € 16,50
 
Leggendo i suoi romanzi, vedo «crescere» come scrittrice Simona Lo Iacono, (recensita già due volte in questa rubrica) che in questo suo ultimo romanzo non soltanto avvince chi legge con una storia che affonda nella grande Storia, ma lo affascina con un linguaggio elegante e raffinato che mescola talvolta parole siciliane all’italiano limpido, scorrevole e ricco.
Il protagonista è Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il principe palermitano autore del Gattopardo: alternando l’infanzia del giovane e l’età ormai matura, Lo Iacono si muove con disinvoltura fra gli umori e le tradizioni del primo Novecento da un lato, e dall’altro la vita del protagonista che si va spegnendo, in un clima di delusione per il fallimento… che si rivelerà solo dopo la morte un grande successo: la pubblicazione del Gattopardo.
 
Da bambino, Giuseppe vive fra gli agi di palazzi nobiliari, dove «per ogni evento della giornata suonava una campana».
Solo, fra tanti adulti, seguito dalla mamma che gli parla in francese e «la sera, prima di andare a letto, leggeva i romanzi di Salgari».
È una donna colta, secondo cui «la migliore rivoluzione… è quella della musica e della letteratura… Cita i classici greci come modello di verità», legge i poeti maledetti mentre suo marito «storceva regolarmente il naso, ostentava insofferenza per tutte le lingue che non fossero il palermitano… Era uno degli ultimi principi di Sicilia. Aveva confidenza con i tempi, con la storia che non cambia mai i padroni, solo i servitori».
 
All’improvviso, compare Antonno, il bambino «tutto al contrario… rideva, e quando aveva la bocca aperta potevo vedere che mancavano due incisivi… ma in quel sorriso monco in cui passavano l’aria, la parola e la saliva, pareva starci anche un silenzio, imprendibile e disperato, che cozzava contro la nostra allegria».
Vivono e crescono insieme, Giuseppe insiste a spiegargli il significato delle parole: «gli scapoli erano per lui solo quelli che portavano lo scapolare della Vergine Assunta… e Polluce era il primo delle cinque dita della mano…», eppure il principe ormai maturo, dalla stanza della clinica romana dove trascorre gli ultimi mesi di vita, non può non ricordare che «è stato Antonno a insegnarmi il valore delle ferite…era un sostenitore dell’imperfezione… a Palermo non era attratto dalla ricchezza, ma dalla povertà… Antonno neanche sapeva che la lingua parlata potesse essere scritta…della bellezza delle parole, però, Antonno sapeva tutto… Anche senza leggerle, le parole resistevano, diceva».
 
Una maestra, donna Carmela, ogni giorno va a casa per dare lezioni ai due ragazzi, mentre don Nofrio, «scrupoloso come un santo» amministra la tenuta di Santa Margherita dove, in un periodo piovoso, vengono ospitati anche attori girovaghi.
Un giorno che la maestra si assenta, vanno al mare: «Sentendo parlare del mare, Antonno si era illuminato. Lo chiamava il cielo capovolto. E il cielo era il mare risalito».
Da adulto, il principuzzo ricorda l’abilità di Antonno nell’intagliare lupiceddi, racconta il suo amore per Licy, la moglie arrivata dalla lontana Lettonia che a Palermo «non riesce a obbedire al sole nostro, alle diavolerie dei suoi raggi, alle temperature che non scemano neanche la notte, e fanno della sera non una conclusione, ma un approdo», confessa «che, forse, ho trovato Dio solo scrivendo», sostiene di appartenere a «un popolo a cui scorrono nel sangue troppe dinastie vittoriose e perdenti, troppi dèi vanitosi e codardi», scopre «la sorprendente Virginia Woolf… non scriveva raccontando fatti esterni, ma interni. E non scandiva il tempo narrativo, ma il tempo interiore».
 
Quanto al romanzo, il primo marito di Licy lo legge e «lo ritenne bellissimo ma inutile, come tutte le cose appartenenti a un secolo passato…».
Al passato Giuseppe è assai legato, quando è in clinica sogna di tornare a Palermo, «per prima cosa andrei in via Lampedusa 17, dove sono nato. Non resta quasi nulla del palazzo, le bombe hanno completato il loro massacro nel maggio del 1943… Quando rientrai, rimasi a lungo a contemplare le rovine… Con la casa se ne andava il passato, la mia infanzia, il primo sguardo sul mondo».
 
Tutto da leggere, questo romanzo, tutto da assaporare nel continuo rincorrersi di ricordi, sorrisi e dolori.
 
Luciana Grillo – [email protected]
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