Dare pazienza al giorno – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

Ovvero: l’arte di attendere nel tempo dell’impazienza, della fretta, della smania di fare

Viviamo il tempo dell’impazienza e della fretta. Forse oggi, dopo la forzata sospensione della quarantena, ci aspettiamo una sorta di ipotetico indennizzo e aumentiamo la smania del fare.
Lo spazio virtuale che ci attornia corre a velocità sempre maggiore e forse ci assedia. Non è raro che ci faccia sentire di esistere solo se facciamo o parliamo in continuazione, se rispondiamo anche senza aver ascoltato o atteso che l’interlocutore abbia concluso il suo pensiero.
C’è ovunque l’urgenza di far prevalere il proprio punto di vista e, in gara con tutti, abitare lo spazio fisico delle conversazioni sovrapposte e confuse, immersi in una babele di parole che appena dette si dimenticano.
Poco, o sempre meno, è lo spazio mentale del pensiero divergente utile per trovare soluzioni alternative, pochissimo il tempo per la riflessione e sempre maggiore quello in cui si consuma ogni emozione che poi si perde o si getta senza che possa lasciare traccia.
 
Saranno gli instant message che riempiono il tempo quotidiano e quel bisogno esasperato di conferma che ci spinge tutti a controllare ogni doppia spunta di WhatsApp e di Telegram.
O saranno i timori sconsiderati di essere dimenticati che assalgono se vedi che non hanno letto o forse trascurato il tuo «necessario twittare».
Ma potrebbero essere anche le poche domande che ci facciamo e le tante risposte di conferma che vogliamo dagli altri per sconfiggere l’incertezza che ci assale e la montagna di dubbi che ci portiamo appresso.
Allora tutto diventa urgente, le pause tra un’azione e l’altra, voragini da riempire per non rischiare la tortura della mente.
Sembra che valga ovunque l’idea che meno vuoti ci sono, meglio si sta. Più il tempo è pieno e meno ne abbiamo per cercare le risposte che ci servono. Ed è l’ansia del fare che trasmettiamo alle nuove generazioni.
 
Ma è anche in aumento il rischio di trasmettere ai figli, più di prima, la paura per l’attesa e l’impazienza, la frenesia della mente occupata e la preoccupazione di non aver niente a cui pensare che può trasformarsi in un sentimento angosciante.
C’è da chiedersi se quel compulsivo digitare in ogni momento e in ogni luogo sugli onnipresenti dispositivi digitali, non sia un comodo antidoto contro la solitudine e la noia, ma anche il segnale di una crescente insofferenza e della frustrazione per non poter avere soluzioni immediate.
Il tempo dell’attesa, se non sei educato al saperlo gestire, innesca tensione, impulsività e comportamenti aggressivi.
Come adulti dare pazienza al giorno potrebbe voler dire imparare l’arte di aspettare.
 
Che non è praticare l’ozio assoluto, ma valorizzare la distanza dal fare e la sospensione dell’azione per generare pause nel pensiero.
È capacità di sintonizzarsi sull’ascolto dell’altro e arrestare il giudizio frettoloso delle parole, così come gustare il piacere del vuoto che si genera se mettiamo un po’ a tacere quel vociare continuo dei social in un’alternanza benefica di silenzio tecnologico.
Ciò non farà perdere la connessione col mondo né disattivare le funzioni cerebrali. Servirà a ritrovare il passo lento dell’indugio che permette di vedere quello che sfugge quando andiamo di fretta.
Come educatori, poi, insegnare l’attesa servirà per dare ai bambini uno spazio per i sogni. In fondo questi nascono nello stesso terreno dei desideri e si costruiscono con le medesime immagini interne che ci fanno andare alla scoperta del mondo.
Educare i piccoli alla fatica del «Sì, ma…», credo aiuti a farli crescere con fiducia e speranza.
 
Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento – Officina del Benessere