Missione in Afghanistan/ 9 – Base italiana di Shindand

Partenza all'alba per una missione alla sede del 5° Reggimento Alpini

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Mi sono alzato alle 5 e mi sono presentato a comando, dove mi hanno fatto trovare un giubbotto antiproiettili, un elmetto, un sacco a pelo e un paio di occhiali antischegge.
Poi mi hanno accompagnato a un C130, dove mi hanno fatto salire insieme ad altri soldati di varie nazionalità.
Tra questi una donna italiana, molto carina (nella foto sotto).

Dopo una mezzoretta di volo, siamo atterrati ala base di Shindand.
Prima di scendere dall'aereo un marine americano di colore si è staccato la mostrina di appartenenza e me l'ha regalata senza dirmi una parola.
Il perché del simpatico gesto non lo saprò mai.

Il colonnello comandante è Giovanni Coradello, di Mattarello (nella foto che segue).
Il colonnello Coradello mi ha salutato calorosamente e ha scambiato un lungo colloquio per sondare l'estrazione culturale del sottoscritto prima di affidarmi al briefing del capitano Massimiliano, altro trentino di Sant'Agnese in Valsugana.



Il compito del corpo di spedizione italiano, ci ha detto, non è quello di vincere una guerra (che non c'è), ma di affermare la pace (che comunque ancora non c'è).
L'area di nostra competenza è l'Afghanistan nord occidentale, dove si sono verificati parecchi incidenti provocati da talebani che non si vedono mai ma che stanno dappertutto.

«La popolazione civile - ci ha detto - apprezza la nostra presenza. Sia perché aiutiamo la gente fornendo loro assistenza medica e altri supporti del genere, sia perché addestriamo il loro personale militare e di polizia.
Non esistevano né un esercito vero e proprio né una forza di polizia come la intendiamo noi. Ufficiali dell'esercito e dei carabinieri li stanno addestrando».

[Più tardi avrò modo di intervistare un giovane ufficiale afghano, chiedendogli (senza la presenza dei nostri) se fosse contento dei nostri uomini. Ha risposto affermativamente e in modo credibile. «Molto di più che degli Americani…»]

Il capitano Paoli mi ha illustrato la formazione strategica del Reggimento.
A quel punto il colonnello mi ha lasciato nelle mani del capitano, invitandolo a mostrarmi il parco automezzi (nella foto qui sotto, i «Freccia») affidandoci la sua scorta personale per farci accompagnare fuori della cittadella militare secondo un piano prestabilito.

L'ufficiale mi ha fatto indossare quello che mi avevano dato a Herat per poi portarmi alle pattuglie.
Era formata da due Lince, composte da quattro militari l'una.
«Dobbiamo viaggiare separati. - Ha spiegato il capitano. - In caso di agguato non dobbiamo farci sorprendere nella stessa autoblindo».

Io mi sono imbarcato con dei giovani veterani provenienti due dall'alta Italia e due dal Sud.



Il lince (foto sotto) è un'auto corazzata dotata di mille accorgimenti specifici.

Oltre alla trazione 4x4, la corazzatura da 4 mm e la potenza dei moderni motori diesel da 3.000 cc, l'auto ha sistemi di variabilità delle gomme (da asfalto, acqua, sabbia, ecc.), notevoli dispositivi elettronici di disturbo e una torretta apribile per consentire al «rallista» di brandeggiare una mitragliatrice MG stando con metà busto fuori dal tettuccio dell'abitacolo.
La cabina è una vera camera corazzata in grado di proteggere i passeggeri fino a un alto livello di attacchi.

Il capomacchina Andrea mi stringe il giubbotto antiproiettili, mi fa sedere nel sedile posteriore sinistro, mi allaccia le cinture a quattro pezzi, mi infila gli occhiali antischegge, mi sistema l'elmetto.
Infine mi insegna come chiudere la portiera e come inserire la sicura che isola la cabina dal resto dell'auto.



«Non deve preoccuparsi. - Mi dice sorridendo il capomacchina. - Tutti noi quattro siamo stati coinvolti in altrettanti incidenti ed è grazie alla nostra esperienza siamo considerati tra i migliori».
«Incidenti? - Chiedo con curiosità giornalistica. - Che cosa vi è successo?»
«Io sono stato vittima di un attacco kamikaze. - Dice Andrea. - Mi sono fratturato la clavicola, ma psicologicamente la cosa non mi ha traumatizzato e mi hanno voluto di nuovo. Loro sono finiti in altrettanti scontri a fuoco dai quali, come vede, sono usciti vivi».

Quella mattinata abbiamo svolto due missioni.
La prima era la visita alle caserme di polizia ed esercito con nostri addestratori, di cui abbiamo accennato sopra (vedi foto seguente).



La seconda ci ha consentito di vedere il patrimonio automezzi del Genio e al recupero di una bomba di mortaio russa (nella foto sotto).
La mattinata si è conclusa con un ottimo pasto alla mensa.
Pasto molto migliore di quello consumato a Herat.

La missione cominciata nel pomeriggio e finita a mezzogiorno dell'indomani merita da sola una grande storia da raccontare.
Vediamo di farlo nei prossimi giorni, ma anticipiamo che si è trattato di un'avventura decisamente estrema.
Altro che Camel Trophy…!