Terrorismo e instabilità del Corno d'Africa – Di Marco Di Liddo

Prima puntata: Inquadramento e importanza strategica del Corno d’Africa

 

Il Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia, Kenya) è la regione africana che oggi esprime e rappresenta al meglio le opportunità, le contraddizioni e i rischi dello sviluppo continentale.
La complessità dello scenario africano orientale è testimoniata innanzitutto dalla diversità dei modelli statali, che vanno dall’apparentemente stabile autoritarismo etiope all’estrema precarietà politica somala, passando attraverso l’imperfetta democrazia keniota e la dittatura eritrea.
Le architetture burocratiche e istituzionali dei Paesi del Corno Africa condividono la difficoltà nell’assorbire e canalizzare in forme mature, pacifiche e partecipative le tensioni etniche delle rispettive società.
Infatti, l’impetuoso sviluppo economico della regione ha nutrito le oligarchie nazionali, senza riuscire a tradursi in una più equa redistribuzione delle risorse.
Dunque, le fratture economiche e sociali si sono accentuate, sovrapponendosi al tradizionale familismo su base etnico-tribale che caratterizza i Paesi dell’Africa orientale.
Le fratture sociali e le tensioni etniche sono in grado si minare la precaria stabilità degli Stati del Corno d’Africa, soprattutto perché, nell’ultimo decennio, esse hanno conosciuto la penetrazione ideologica e l’infiltrazione da parte di gruppi di ispirazione qaedista.
Nello specifico, al-Shabaab, il gruppo terroristico somalo affiliato ad al- Qaeda, ha gradualmente modificato la propria agenda politica, rendendola sempre più internazionale e sempre più orientata verso il jihad.
Gli attentati a Nairobi dello scorso settembre sono la dimostrazione che lo sviluppo del Corno d’Africa, gli interessi economici e la vita dei cittadini occidentali sono in costante e crescente pericolo.
La Comunità internazionale, con in testa l’Italia, è chiamata a proseguire il dialogo con i governi locali per l’implementazione di un agenda politica e di sicurezza condivisa, in grado di offrire soluzioni durature ed efficaci, come nel caso del contrasto alla pirateria nel Golfo di Aden.
Per questo iniziamo oggi la pubblicazione di una serie di servizi sul Corno d’Africa, grazie al prezioso contributo di Marco Di Liddo del Centro Studi Internazionali di Roma.

 Introduzione
Negli ultimi 15 anni l’Africa è stato il continente protagonista di cambiamenti politici ed economici tra i più rilevanti di tutto il globo. Lo sviluppo economico e politico africano è avvenuto in maniera disomogenea, intermittente, contradditoria e profondamente variegata da regione a regione.
I lenti ed imperfetti processi di democratizzazione, spesso seguiti al doloroso collasso di dittature autocratiche pluridecennali, hanno rappresentato il primo barlume di stabilità politica che ha permesso maggiori investimenti e prestiti internazionali, soprattutto dal Fondo monetario internazionale (FMI).
Il flusso di denaro proveniente da Europa, Stati Uniti e Cina è stata la colonna portante di una crescita economica impetuosa ma fragile, poiché ancora troppo legata all’esportazione (materie prime, monocolture agricole) e non al consumo interno.
Tale impianto produttivo ha incancrenito i vizi storici delle élite di potere africane, ossia l’oligopolio economico, il familismo politico su base etnico-tribale e la disomogeneità nella redistribuzione delle risorse. In questo modo, le differenze tra i centri di potere e ricchezza e le periferie sottosviluppate sono progressivamente aumentate, costituendo la base per radicali rivendicazioni sociali ed etniche.
 
Di contro, la diffusione dei nuovi media ed i progetti educativi sia delle organizzazioni non governative sia dei governi occidentali hanno incentivato lo sviluppo embrionale di una società civile che, pur accettando i vantaggi tecnologici della modernizzazione, fatica a sposare i valori, le metodologie e le strutture della modernità.
Infatti, la maggior parte dei popoli africani continua a riconoscersi primariamente nell’identità etnica, che costituisce, salvo rarissimi esempi, la vera spina dorsale di qualsiasi struttura associativa, partitica e istituzionale.
l quadro generale sin ora delineato permette di descrivere quello che potrebbe essere definito il «modello africano di democrazia», ossia un sistema profondamente verticistico, basato sulla preminenza del potere esecutivo su quello legislativo, nel quale le gerarchie militari ricoprono un ruolo molto influente.
Un sistema nel quale i diritti civili e politici sono tutelati in modo insufficiente e dove la lotta tra classi, perdendo i connotati della decolonizzazione, ha accentuato ulteriormente la sua dimensione etnico religiosa.
 
Dunque, la persistenza del settarismo, la scomparsa del socialismo quale ideologia fondante la rivolta e la fine del sostegno sovietico ha spinto le etnie subalterne tra le braccia di organizzazioni e dottrine che canalizzassero la spinta antigovernativa.
In molti casi, il marxismo è stato sostituito dal radicalismo islamico di matrice salafita e il sostegno sovietico è stato avvicendato dall’ingresso nel network di al-Qaeda, i cui franchise regionali sono riusciti a sopperire alle lacune sociali, educative ed amministrative dei governi centrali.
Sotto molti aspetti, la fusione tra rivendicazione etnica ed estremismo religioso è stata più letale di quella tra rivendicazione etnica e socialismo reale, in quanto l’elemento religioso è parte integrante della cultura sociale dei popoli africani più di quanto non lo fosse mai stato pienamente il marxismo.
In sintesi, anche quei Paesi che possono sembrare avviati verso un luminoso futuro di prosperità, sviluppo e stabilità (sia essa più o meno democratica), sono in realtà esposti continuamente a rischi di improvvisa esplosione, poiché il sistema istituzionale e l’apparato di sicurezza non sono abbastanza forti da assorbire determinati shock sociali.
 
Nonostante le contraddizioni interne, i governi nazionali africani si sono avventurati in un sempre maggiore protagonismo internazionale attraverso le organizzazioni regionali e l’Unione africana (UA). Il leitmotiv basato su «soluzioni africane a problemi africani» lanciato dalle maggiori potenze continentali racchiude al suo interno tutti i limiti delle strategie di Paesi che, pur dovendo confrontarsi con variabili livelli di instabilità interna, intendono pacificare il proprio vicinato e proiettarvi la propria influenza.
Oltre all’aspetto puramente tecnico, ossia le reali capacità militari, economiche e infrastrutturali, desta particolare preoccupazione la sterilità politica dell’azione esterna dei maggiori attori continentali africani, incapaci di promuovere un modello sostenibile di sviluppo istituzionale che neanche essi posseggono.
Di fronte a questo trend, la Comunità internazionale non ha una strategia univoca e deve confrontarsi con le esigenze economiche e le problematiche di sicurezza delle diverse regioni africane.
Innanzitutto, il motto «soluzioni africane a problemi africani» è autentico soltanto sulla carta, visto che la maggior parte delle missioni di stabilizzazione, dei grandi investimenti infrastrutturali e dei visionari programmi di lotta alla povertà, all’analfabetismo e alle malattie sono finanziati dalle organizzazioni internazionali o dai governi occidentali che, attraverso le “conferenze dei donatori”, elargiscono il denaro necessario per le attività di cui sopra.
 
D’altronde, l’Africa non ha ancora i mezzi e le risorse umane e strutturali per poter affrontare i suoi problemi in modo autonomo e indipendente.
La cooperazione appare tutt’ora indispensabile per garantire benefici reciproci a chi riceve e a chi effettua le donazioni.
Inoltre, i governi occidentali si trovano nella difficile situazione di intrattenere proficue relazioni commerciali con Governi autoritari, le cui élite spesso adottano politiche discriminatorie nei confronti delle etnie subordinate.
I tentativi, soprattutto da parte dell’Unione europea e degli Stati Uniti, di vincolare gli investimenti e gli aiuti umanitari a sensibili progressi nel processo di democratizzazione si confrontano con le pragmatiche politiche di altri attori internazionali, con in testa Russia e Cina, focalizzati unicamente sulla tutela dei propri interessi e per nulla interessati alla politica interna dei partner africani.
Il Corno d’Africa è un eccellente esempio delle dinamiche sin ora evidenziate.
Infatti, i Paesi con una grande crescita economica, quali Etiopia e Kenya, sono caratterizzati da una situazione politica interna di precaria stabilità, come Nairobi, o di strisciante autoritarismo, come Addis Abeba.
 
Entrambi i Paesi, nonostante l’ambiguità e le contraddizioni dello scenario interno, intendono porsi come garanti e promotori del sistema di sicurezza e come modelli di sviluppo della regione, anche a costo di un massiccio ed impopolare coinvolgimento militare.
Sulle aspirazione egemoniche di entrambi pesa la responsabilità nei confronti della Somalia, il cui processo di stabilizzazione, nonostante le note positive dell’ultimo biennio, è lungi dall’essere realizzato.
In uno scenario nel quale le organizzazioni radicali islamiche nazionali hanno sposato un’agenda jihadista sempre più internazionale, i pericoli per i cittadini e gli interessi occidentali sono notevolmente cresciuti.
Di fronte alle sfide, alle opportunità e ai rischi che circondano il futuro del Corno d’Africa, la Comunità internazionale ha prodotto e presumibilmente continuerà a produrre uno sforzo umanitario, politico e di sicurezza non indifferente, i cui risultati più incoraggianti sono stati riscontrati nella lotta alla pirateria nel Golfo di Aden, nel contrasto al terrorismo, al traffico di armi e alla tratta di esseri umani.
Tuttavia, l’attivismo di Europa e Stati Uniti nei settori della difesa e della sicurezza è bilanciato dalla impressionante penetrazione economica cinese che, essendo libera da vincoli di sviluppo politico, arricchisce le risorse delle élite di governo e le rende meno suscettibili alle pressioni occidentali.
 
Sul futuro del Corno d’Africa pesano molte incognite. Innanzitutto, la stabilizzazione della Somalia e la sconfitta dei movimenti di ispirazione qaedista sono gli obbiettivi di prioritaria realizzazione, poiché in grado di avere un effetto positivo su tutti i Paesi della regione. Tuttavia, non bisogna dimenticare che, oltre al terrorismo, la stabilità del Corno d’Africa è minacciata dai movimenti secessionisti su base etnica presenti in tutti i Paesi della regione e sulle rivalità tra i diversi governi.
In questo senso, il vicendevole sostegno alle rispettive organizzazioni indipendentiste continua a essere uno strumento di pressione politica molto utilizzato.
A condizione questo sottile e instabile equilibrio fondato sulle rappresaglie è la mancata corrispondenza tra geografia politica e geografia umana. Infatti, i confini amministrativi degli Stati non coincidono ai confini etnici ed antropologici, creando un mosaico di minoranze incrociate di difficile gestione.
 
I Paesi occidentali dovranno riuscire nel difficile compito di contrastare il modello di sviluppo «predatorio» cinese, cercando di mostrare ai governi africani che non esiste crescita economica duratura e condivisa senza il miglioramento della partecipazione politica popolare.

- L’Italia considera la stabilizzazione del Corno d’Africa una delle sue priorità strategiche di politica estera.
Questa tendenza è evidenziata dalla pluriennale presenza del nostro Paese nelle missioni internazionali impegnate nella lotta contro la pirateria nel Golfo di Aden, nel sostegno alla ricostruzione delle istituzioni della Somalia e nel contrasto al terrorismo.
Le attività umanitarie, diplomatiche e militari italiane in Africa orientale hanno l’obbiettivo di migliorare il quadro di sicurezza regionale per proteggere e tutelare i cittadini e gli interessi nazionali. 
 
- La progressiva internazionalizzazione dell’agenda politica ed operativa dei movimenti radicali islamici del Corno d’Africa, infatti, potrebbe aumentare i rischi per le persone e le aziende occidentali, poiché questi diventerebbero i principali obbiettivi degli attacchi e dei rapimenti. Inoltre, un ipotetico ritorno in auge del fenomeno della pirateria comporterebbe l’aumento dei costi di navigazione, di assicura zione sul carico e sulle nave nonché una minaccia per la vita degli equipaggi. 
 
- L’incremento del costo economico e umano della navigazione nel Golfo di Aden avrebbe una ricaduta diretta sul traffico nel canale di Suez e, dunque, nel Mediterraneo centrale e orientale.
Le principali rotte commerciali potrebbero cominciare a spostarsi sull’Atlantico, rafforzando il peso strategico e gli introiti dei suoi porti a danno dei porti mediterranei e, soprattutto, italiani. Oltre alle necessità contingenti, occorre sottolineare che l’espansione economica del Corno d’Africa possiede ampi margini di crescita e prosecuzione, garantendo notevoli opportunità agli investitori stranieri. 
- Questa crescita non potrà essere pienamente possibile senza un’accresciuta stabilità politica e di sicurezza. Dunque, l’Italia è perfettamente consapevole che soltanto contribuendo alla stabilizzazione della regione, si potrà, in futuro, beneficiare delle opportunità economiche che ne seguiranno. 
 

 
 L’ importanza strategica del Corno d’Africa
Il Corno d'Africa è una penisola dalla forma triangolare che si sviluppa all’estremità orientale del continente africano. Abitualmente i Paesi inclusi nella regione sono Eritrea, Gibuti, Etiopia e Somalia (incluse le repubbliche semi-indipendenti di Somaliland e Puntland).
Tuttavia, gli avvenimenti politici dell’ultimo decennio sono stati caratterizzati da una notevole spinta propulsiva del Kenya, che ha orientato la propria politica estera in misura maggiore verso il Corno d’Africa che verso la Regione dei Laghi (Congo, Uganda, Burundi, Ruanda) e l’Africa australe orientale (Tanzania, Mozambico, Madagascar).
Inoltre, la geografia etnica keniota e l’altissimo numero di somali presenti sul suo territorio hanno costretto Nairobi ad un ruolo più attivo nel processo di stabilizzazione della Somalia. Per tutte queste ragioni, appare opportuno collocare il Kenya come quinto membro dei Paesi del Corno d’Africa.
 
Il Corno d’Africa ricopre un’importanza strategica primaria per lo sviluppo economico africano e per i flussi commerciali euro-asiatici. Infatti, la sua posizione geografica gli garantisce il controllo delle rotte marittime che, attraverso gli stretti di Suez e di Bab el-Mandeb, regolano i traffici di merci tra Europa, Africa, Asia e, parzialmente, Medio Oriente.
Inoltre, le migliaia di chilometri di costa, i grandi porti e le reti infrastrutturali di prossima realizzazione rappresentano il futuro sbocco per la commercializzazione dei prodotti provenienti dalla regione dei Laghi, dall’Etiopia e, soprattutto, dal Sud Sudan.
 
Nello specifico, l’attenzione è focalizzata sulle risorse gasifere e petrolifere di Addis Abeba, Juba e Kampala, alla ricerca di un corridoio che bypassi le pipeline sudanesi, al momento le uniche in grado di garantire l’esportazione dell’oro nero e dell’oro blu. Infine, non bisogna dimenticare il potenziale, tutt’ora non completamente stimato, dei giacimenti offshore a largo di Kenya e Somalia.
Il proseguimento dello sviluppo economico del Corno d’Africa non può prescindere dalla sicurezza del Golfo di Aden e dalla difesa della libertà di navigazione nell’Oceano Indiano.
Dunque, la lotta alla pirateria, che nell’ultimo biennio ha ottenuto risultati soddisfacenti, rappresenta uno dei pilastri della crescita e uno dei presupposti irrinunciabili per il raggiungimento degli obbiettivi economici da parte di tutta la Comunità internazionale.
Infatti, le attività dei pirati non solo mettono a rischio la vita degli equipaggi e il carico di singole imbarcazioni, ma causano un impressionante innalzamento dei costi di navigazione sia diretti (carburante, manutenzione nave) sia indiretti (assicurazioni sul carico).
 
Nel recente passato le autorità nazionali africane, l’Unione europea e la NATO sono riuscite a ridimensionare significativamente il fenomeno piratesco, incentrando la strategia di contrasto soprattutto a livello militare.
In futuro, quando le condizioni politiche e di sicurezza della Somalia (culla della pirateria del XXI secolo) lo permetteranno, l’aiuto internazionale dovrà concentrarsi sull’aspetto sociale: la ricostruzione delle infrastrutture e il reinserimento degli ex pirati in un sistema economico che ne permetta la sopravvivenza senza che questi, per lo più pescatori,
debbano ricorrere ad attività criminali.
Un’altra problematica che pone l’attenzione del mondo sul Corno d’Africa è la diffusione del terrorismo islamico di matrice qaedista. Infatti, la regione africana orientale costituisce uno dei fronti più sanguinosi del jihad globale, soprattutto da quando al-Shabaab (Harakat ash-Shabāb al-Mujāhidīn, Movimento dei giovani combattenti), gruppo jihadista somalo, ha rafforzato i propri legami con al-Qaeda, ampliando sistematicamente le proprie attività a tutto il Corno d’Africa e non più alla sola Somalia.
 
L’area di operazioni di al-Shabaab si estende ormai dalle foreste del Congo orientale sino alle coste dello Yemen e ha nel sud della Somalia il proprio quartier generale. Le capacità militari e politiche del gruppo si sono evolute a tal punto da rappresentare una minaccia concreta non solo per la stabilità dei governi nazionali, ma anche per gli interessi economici dei Paesi occidentali.
Inoltre, la progressiva qaedizzazione dell’organizzazione e la ricerca di nuovi canali di finanziamento legati al traffico delle terre rare gli ha permesso di sviluppare una densa rete di contatti in scenari geopolitici e in teatri precedentemente inesplorati, come la Repubblica centrafricana e l’Uganda, dove essa si è dimostrata capace di infiltrare le tradizionali tensioni etniche locali, radicalizzando le comunità tribali e cercando di trasformare i conflitti interni in nuovi fronti del jihad.
Tuttavia, il dato più allarmante riguarda le crescenti capacità di al-Shabaab di infiltrare la diaspora somala in Europa e negli Stati Uniti, fattore che potrebbe accrescere la possibilità di aumentare i proseliti islamici radicali in queste comunità e, nella peggiore delle ipotesi, portare ad attacchi da parte di home grown terrorist (letteralmente «terroristi cresciuti in casa»).
 
Oltre alla pirateria e la terrorismo di ispirazione qaedista, tra piaghe che maggiormente affliggono il Corno d’Africa ci sono i traffici di esseri umani e di armi, che hanno nell’Eritrea il loro corridoio preferenziale. I
nfatti, da Asmara parte la rotta migratoria dell’Africa orientale diretta sia in Europa che in Medio Oriente. In un momento in cui l’emergenza umanitaria legata all’immigrazione clandestina ha superato i livelli di norma, affliggendo particolarmente i Paesi della sponda nord del Mediterraneo, le organizzazioni internazionali si trovano nella difficile situazione di dover intensificare i propri sforzi per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali ed eliminare alla radice le cause che spingono i migranti a lasciare i propri luoghi d’origine.
Se il contrasto al traffico di essere umani non ha fatto registrare le stesse note positive della lotta alla pirateria, è soprattutto a causa della diversità del contesto politico e della complessità del problema, due fattori che impediscono l’utilizzo di una soluzione simile a quella adottata per la pirateria.
 
Infatti, a differenza della Somalia, l’Eritrea ha un governo che controlla pienamente il proprio territorio e che è colluso con i trafficanti di esseri umani. Inoltre, l’isolamento diplomatico di Asmara e la sua reticenza ad aprire il Paese alla cooperazione internazionale impediscono l’adozione di misure condivise che arginino il flusso di migranti.
Alle responsabilità dirette dell’Eritrea occorre aggiungere la negatività della contingenza geopolitica.
Infatti, la profonda crisi degli Stati del Maghreb e il collasso delle loro strutture di sicurezza ha facilitato le attività dei mercanti di uomini e degli scafisti, permettendo un significativo e quasi indisturbato passaggio del flusso migratorio proveniente dall’Africa sub-sahariana ed il conseguente aumento delle partenze dalle coste libiche e tunisine alla volta dell’Europa.
 
L’incremento incontrollato del flusso di clandestini pone, per i Paesi di destinazione, un problema di sicurezza, riferito alla navigabilità del Mediterraneo, di costi economici, dovuto all’esborso per le strutture e le procedure di accoglienza, di equilibri politici interni, legato agli scontri tra diverse forze politiche sul tema dell’immigrazione.
Anche per quanto riguarda il traffico di armi, il Governo eritreo svolge un ruolo di primo piano. Infatti, Asmara rappresenta il tramite tra l’Iran e i mercati africani e mediorientali, come in Sudan, nei Territori palestinesi e in Libano.
Infatti, il traffico d’armi è l’unico strumento che alcuni governi posseggono per aggirare l’embargo a loro imposto dalle Nazioni Unite, come nel caso di Teheran, Khartoum e Asmara. Il principale punto di passaggio dei carichi di armi provenienti dall’Iran è, il porto eritreo di Massaua, dal quale partono i carichi sia in direzione settentrionale sia in direzione meridionale, nello specifico verso la Somalia, per rifornire le milizie di al-Shabaab.
 
Marco Di Liddo
(Ce.S.I. 1 – Continua)