Spread, ISIS-Daesh e Bail In: parole «entrate» nell'uso comune

Sono termini che la gente ha dovuto imparare e capire senza che nessuno si sia preso la briga di spiegare alcunché

Ci sono parole e linguaggi che entrano nell’uso comune di brutto, cioè senza che nessuno si sia neanche preso la briga di spiegare che cosa vogliano dire.
Il termine più famoso è lo «spread», introdotto nella lingua italiana quando la crisi aveva fatto lievitare gli interessi pagati dallo stato per i Buoni del Tesoro. Il governo che più ha usato (e abusato) questo termine, come se fosse stata la ragione di tutti i mali, è stato quello presieduto da Mario Monti.
Letteralmente Spread  significa «differenza», ma nella terminologia finanziaria assume significati specifici.
Può essere inteso come il «differenziale domanda-offerta», cioè la differenza tra il prezzo più basso a cui un venditore è disposto a vendere un titolo (bid) e il prezzo più alto che un compratore è disposto a offrire per quel titolo (ask) e per questa ragione è spesso usato come misura della liquidità del mercato.
Ma il termine diffuso in Italia a partire dal 2013, va inteso anche come «credit spread», che denota la differenza tra il tasso di rendimento di un'obbligazione rispetto a quello di un altro titolo preso a riferimento.
Nel caso specifico, se un BTP con una certa scadenza aveva un rendimento del 7% e la corrispettiva Bundesanleihe tedesca con la stessa scadenza aveva un rendimento del 3%, allora lo spread risultava di 4 punti percentuali (7 - 3), ovvero di 400 punti base di spread.
 
Altra parola introdotta un paio di anni fa è stata l'«ISIS» (Islamic State Iraq e Siria), poi ridotta a «IS» quando il fenomeno del cosiddetto Stato Islamico si è portato anche fuori dai confini di Siria e Iraq.
Il termine peraltro è stato recentemente sostituito con altro totalmente diverso: «Daesh», acronimo dell’arabo «داعش, che alla versione di Stato Islamico ha aggiunto la parola «Sham» (levante): Dāʿish o meglio Daesh.
Ovviamente nessuno si è preso la briga di spiegare che ISIS e Daesh significhino la stessa cosa, e questo sia da parte dei politici che dei giornalisti.
Beh, si sa che cambiare parola significa sembrare perennemente aggiornati, in barba all’aggiornamento che non viene fatto alla gente.
 
Ma il termine che ultimamente è entrato nelle nostre case senza riguardi è «Bail-in», precisamente da quando sono accaduti alcuni fallimenti di istituti bancari.
Il termine è entrato in vigore dal 1° gennaio 2016 per volontà dell’Unione Europea per definire la capacità di solvibilità delle banche in crisi.
«Bail» infatti significa «avallo», «garanzia». E «bail-in» sta a indicare le garanzie che un istituto bancario porta con sé, a bilancio. In altre parole, se il «bail-in» di una banca è corretto, anche in caso di disastro finanziario dovrebbe essere in grado di rimborsare tutti i crediti.
Il termine «Bail-out» è invece la garanzia che viene dall’esterno di un istituto bancario per consentirgli di far fronte ai propri debiti nel caso non ne fosse più capace. Può venire dai fondi comuni delle banche o delle casse rurali, ma quel che importa all’Unione Europea è che il Bail-out non venga dallo Stato.
Il principio comunitario che vuole impedire agli stati di intervenire sul mercato è comprensibile. Ma resta davvero singolare per la gente comune vedere che la CE sia intervenuta per impedire che lo Stato italiano possa intervenire per salvare i risparmi dei cittadini traditi dalle loro banche.
 
Ma il capolavoro linguistico è stato la «stepchild adoption», che letteralmente significa l’«adozione del figliastro».
È uno dei punti più dibattuti della proposta di legge sulle unioni civili, in questi giorni in discussione al senato. Consiste nella possibilità di adozione da parte del genitore non biologico del figlio, naturale o adottivo, del partner.
In Italia è già prevista per le coppie eterosessuali sposate da almeno tre anni, o che abbiano vissuto more uxorio per lo stesso periodo ma siano sposate al momento della richiesta.
Non è possibile per le coppie omosessuali finché queste non potranno adire a matrimonio ed è per questo aspetto che l’intero impianto legislativo rischia di naufragare.
Ma per restare al tema di questo articolo, ci domandiamo se fosse stato davvero il caso di adottare una parola composta in lingua inglese per definire i bambini oggetto della disputa.

GdM