Intervista a Elisabetta G. Rizzioli, 3ª parte – Di Daniela Larentis
Il corposo volume ancora in fieri a cui sta lavorando la storica dell’arte verte intorno a San Michele Arcangelo e altre storie|Arte della Giustizia e Giustizia nell'Arte
Guido Reni, «San Michele Arcangelo» - 1635 - Olio su ormesino, Roma, chiesa di Santa Maria della
Concezione, primo altare a destra entrando, part.
(Link alla seconda parte)
La storica dell’arte Elisabetta G. Rizzioli sta lavorando alla stesura di un corposo volume ancora in fieri che verte intorno a San Michele Arcangelo e altre storie| Arte della Giustizia e Giustizia nell'Arte.
Abbiamo avuto il piacere di intervistarla.
Durante la ricerca che sta conducendo ha preso in esame anche la cappella della Madonna delle Grazie all’interno della Cattedrale di San Lorenzo a Lugano…
«In ambito ticinese si consideri nella chiesa di San Lorenzo in Lugano con una facciata a vento del 1517, capolavoro del rinascimento lombardo, la cappella della Madonna delle Grazie, sulla destra entrando, eretta nel 1402 ed ingrandita nel 1494 - in seguito ad una peste cessata e ad un’altra scongiurata -, decorata nel 1623 con un’ancona ancora ivi presente di Giovan Battista Carloni di Rovio - attivo soprattutto a Genova e a Torino nella corte del duca di Savoia, - e ricostruita nelle proporzioni attuali e nell’impeto barocco fra il 1771 e il 1774 su disegno di Giovan Battista da Gentilino e - come sembra - secondo i progetti dell’architetto Giovan Battista Casasopra (1720-1763), allievo del piemontese Bernardo Antonio Vittone, venendo decorata dai fratelli Torricelli di Lugano.
«L’imponente altare, con sovrastruttura a tempio, ospita nella parte inferiore, fra le colonne che costituiscono i quattro gruppi di sostegno della cupola, San Michele Arcangelo che sconfigge il demonio, statua settecentesca verosimilmente eseguita in stucco lustro forse ad opera del valtellinese Giacomo Parravicino detto il Gianolo (1660-1729) che con altre sette lega l’insieme in un articolato discorso simbolico; Giuseppe Pasqualigo nel suo Manuale ad uso del forastiere in Lugano ovvero guida storico-artistica della Città e dei contorni - Fioratti, Lugano 1855 (poi 1962), p. 171, - la «attribuisce a un certo Parravicino, del quale, per ora, si conosce soltanto il nome.
«Non ci riesce di leggere sotto quelle figure il discorso simbolico, che certo le ha ispirate. Qualcuno vi scopre raffigurate le otto Beatitudini, ed altri la vanità, la carità, la pace, la fede, la giustizia, la penitenza, la purezza e la fede.»
Potrebbe condividere qualche breve informazione sul Duomo di San Michele Arcangelo a Candiana?
«Il duomo di San Michele Arcangelo a Candiana, in territorio padovano, eretto nel 1097 con la fondazione di un monastero cluniacense, diventato in seguito abazia e passato ai Canonici Regolari di San Salvatore nel 1462; presenta una luminosa facciata rinascimentale in marmo bianco di chiara evocazione palladiana (la fabbrica attuale è quella costruita fra il 1491 e il 1502 ed è attribuita a Lorenzo da Bologna) sorvegliata nella sommità del timpano da una grande statua acroteriale dell’arcangelo Michele di mano di Giovanni Bonazza; nell’interno seicentesco a croce latina con tre altari per lato che precedono il transetto rialzato, sovrasta il presbiterio la grande statua lignea di San Michele che con una mano regge la bilancia per pesare due anime appartenenti a due figurine collocate sui piatti e con l’altra leva al cielo la spada di fuoco; oltre al soffitto decorato a fresco da Michelangelo Morlaiter (1729-1806) con al centro la raffigurazione di San Michele che guarisce dalla peste, nella chiesa l’immagine dell’arcangelo ricorre in 14 arredi decorativi diversi. Anche nella vicina Bagnoli di Sopra un’altra parrocchiale barocca, eretta fra il 1662 e il 1674 da un architetto della scuola di Longhena, è intitolata all’arcangelo.»
E su San Michele in Isola?
«Quanto a San Michele in Isola, oggi nota come cimitero della città, vi esisteva anticamente una chiesetta dedicata all’arcangelo; nel 1221 venne consacrata la nuova chiesa in stile romanico-bizantino; successivamente venne riedificata secondo le forme attuali dall’architetto Mauro Codussi che vi realizzò una delle testimonianze più luminose del Rinascimento veneziano; legata al nome di campo Sant’Angelo è la presenza di San Michele nella città storica ove si ergeva l’omonima parrocchiale soppressa nel 1810 ed abbattuta nel 1837, come distrutta fu un’altra chiesa dei Carmelitani alla Giudecca intitolata all’arcangelo.
«È accomunato alla storia di Venezia in forza del suo passato monastero di San Michele l’attuale duomo di Mirano affidato nel 1768 ai preti diocesani di Treviso. L’interno costituito da una grande navata si presenta ornato di altari ed opere sui quali domina sul soffitto l’affresco eseguito nel biennio 1847-1848 col Giudizio universale dipinto dal bellunese Giovanni De Min (1786-1859) raffigurante un grande arcangelo pesa-anime, tema da lui già affrontato nella parrocchiale di Paderno.»
Un’altra straordinaria immagine dell’Arcangelo Michele accanto a San Rocco è conservato nella collegiata di San Bartolomeo Apostolo, la parrocchiale di Borgomanero. Può descriverla?
«Di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone si veda San Rocco e San Michele Arcangelo o la Cessazione della peste - un olio su tela di cm 239 x 138 - databile al secondo decennio del Seicento (dopo la peste del 1575-1577 e prima di quella del 1630, morendo quattro anni prima), già collocato sull’altare della seconda cappella a sinistra entrando, dedicata a San Rocco, della parrocchiale collegiata di San Bartolomeo a Borgomanero; sostituito agli inizi del Novecento da una statua lignea è oggi conservato nella vicina scuola della collegiata [fig. 7]. Dal punto di vista iconografico la tela instaura un non frequente collegamento fra San Rocco e Michele Arcangelo in atto di ringuainare la spada: elemento quest’ultimo che simboleggia la cessazione della peste, traendo spunto dal miracolo avvenuto nel corso della citata pestilenza romana del 590, quando, durante la processione penitenziale di Gregorio Magno, l’arcangelo in tale atteggiamento apparve sulla cima della Mole Adriana (da allora Castel Sant’Angelo) nell’atto di rinfoderare la spada sanguinante a significare che l’ira divina si era placata alle preghiere del pentito popolo romano flagellato dalla peste. Leggenda che è stata per la prima volta espressa in forma letteraria da Iacopo da Varazze nella Legenda aurea.
«Il racconto attribuisce tuttavia il miracolo della sconfitta del morbo pestilenziale all’immagine della Madonna della basilica di Santa Maria Maggiore portata in processione dal papa; solo allora «Gregorio vide l’angelo del Signore sopra il castello di Crescenzio forbire la spada sanguinosa e riporla nella vagina, e così intese che era cessata la peste. [...]». Fonti anteriori al secolo XIII - i diversi biografi di papa Gregorio, Paolo Diacono, Giovanni Diacono e Gregorio di Tours - pur ricordando la peste del 590 non registrano tuttavia l’apparizione dell’angelo, esistendo tuttavia testimonianze certe, tramandate dai due martirologi della metà del secolo IX, dell’esistenza del culto dell’arcangelo nel mausoleo-fortezza anteriori al formarsi della leggenda.
«Il Martyrologium romanum parvum e il Martyrologium Adonis alla data del 29 settembre, festa di San Michele Arcangelo, ricordano la dedica da parte di un papa Bonifacio - forse Bonifacio IV (608-615) - di una cappella intitolata all’angelo situata fra le nubi, nel più alto degli ambienti originari che costituivano la torre centrale del mausoleo ed esattamente nell’altissima sala che poi fu divisa in due vani: la Sala del Tesoro e la sovrapposta Sala Rotonda, Sacro luogo da considerarsi come una filiazione diretta della grotta sul Monte Gargano della fine del secolo V, da cui il culto dell’arcangelo si è diramato nel mondo occidentale e a Roma.
Pier Francesco Mazzucchelli, San Rocco e San
Michele Arcangelo.
«Quanto al San Rocco è innovativa la sua gestualità venendo infatti raffigurato per lo più dotato degli attributi che ne fondano la riconoscibilità - abito da pellegrino corredato da bastone e conchiglia, strumento per bere dai corsi d’acqua durante il viaggio, e cane - nell’atto dell’ostensione delle piaghe in cui solitamente impiega entrambe le mani. A differenza di quanto avviene con la restante schiera dei santi intercessori - cui fa parte già dalla fine del secolo XV - Rocco non attua invero mai la gestualità dell’intercessione, sottraendosene in virtù delle modalità dell’ostensione stessa delle piaghe - che ha funzione taumaturgica ed apotropaica - sulla scorta dell’ostensione delle piaghe di Cristo nell’iconografia del Compianto dopo la crocifissione o del Giudizio universale, ove la funzione, ovviamente diversa, è salvifica e teleologica; ciò rende ragione dell’immobilità della tradizione iconica del santo nei contesti non narrativi; rara eccezione è fornita da Antonio d’Enrico detto Tanzio da Varallo (c. 1575-1633) con il San Rocco del 1631 (un olio su tela di cm 190 x 125, firmato e datato, già nella parrocchiale di Camasco, su una parete del presbiterio della chiesa, e dal 1952 in deposito alla Pinacoteca Civica di Varallo (inv. 693).
«Per la vivacità ritrattistica con cui sono raffigurati gli astanti protetti dal santo e lo splendido cane ai suoi piedi e la nuova possibilità di figurare con la mano sinistra il gesto dell’intercessione nel santo, la tela coniuga l’atto dell’ostensione delle piaghe e quello della recommendatio fidelium attuati con la destra. Il suo disegno preparatorio per la figura principale della pala - un foglio di mm 390 x 293 - eseguito a matita rossa, gesso bianco su carta preparata in rosa, passato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia assieme alla collezione di Giuseppe Bossi nel 1822, sottintende il contesto legato all’Accademia di Brera e un momento di contatto con la Scuola di Disegno di Varallo tale da spiegare il transito a Milano del disegno del quale è ovvio ipotizzare una precedente conservazione valsesiana.
«Morazzone fa allargare invece al santo le braccia a croce con un inedito effetto di proiezione cristologica, essendo dunque indubbio il carattere di ex voto - come confermato dalle vicende storiche della cappella - dell’immagine, da leggersi come una variazione sulla tematica della causa-effetto dell’intercessione dei santi e come una felice allegoria della cessazione della peste per intervento divino.»
Guido Reni, «San Michele Arcangelo», 1635, olio su ormesino, Roma, chiesa di Santa Maria
della Concezione, primo altare a destra entrando.
Nella sua imponente ricerca lei analizza peraltro l’opera intitolata «San Michele Arcangelo» di Guido Reni, conservata a Roma nella chiesa di Santa Maria della Concezione. Potrebbe raccontarci qualcosa a riguardo?
«In ordine alla tradizione iconografica raffaellesca - vi ritornano la classicità e l’equilibrio e l’arcangelo, anche se differente nell’atteggiarsi della figura, possiede la medesima misura spirituale dell’opera - si confronta indubbiamente il San Michele Arcangelo - un olio su ormesino (più durevole della consueta tela) di cm 293 x 202 - dipinto da Guido Reni (1575-1642) nella capitale felsinea nel 1635 ed inviato poi a Roma - l’anno dopo ne verranno ricavate, a sancirne la fortuna, due incisioni ad opera rispettivamente di de Rossi e del francese Rémy Vuibert su commissione di Antonio Barberini (l’unico a sostenere che la commissione risalga invece al cardinal Francesco Barberini è Bellori), cardinale di Sant’Onofrio (1607-1671) e fratello più giovane di Urbano VIII (1623-1644) il quale, provenendo dall’Ordine dei Cappuccini, intese collocarlo nella chiesa romana dell’Ordine intitolata a Santa Maria della Concezione, da lui fatta erigere a partire dal 1626, sull’altare della prima cappella a destra entrando, in un elegante altare ligneo - un cartiglio dipinto triangolare riporta l’incipit della preghiera della tradizione cristiana cattolica sancte / michael / arcangele - intagliato ed intarsiato che asseconda la più tipica tradizione dell’ordine, realizzato da Michele da Bergamo, architetto pontificio cui si devono il disegno e la direzione dei lavori dello stesso edificio sacro (fig.8). Raffinato e maestoso l’Arcangelo Michele indossa una lorica romana di colore azzurro rifinita d’oro - cui si abbinano i raffinati calzari -, è armato di lancia e si impone sul demonio prostrato a terra, occupando interamente la scena, colto nel momento della vittoria finale; nessuna incertezza lo pervade essendo il suo trionfo assoluto e definitivo. Il riferimento formale è al prototipo raffaellesco del Louvre, che Guido conosceva, riproposto all’interno di un’iconografia ormai consolidata e già ripresa dal Cavalier d’Arpino, iconografia della quale questo dipinto reniano diventa a sua volta il modello più riconosciuto e divulgato.
Raffaello è riuscito a lasciare infatti un’impronta indelebile sull'intera arte occidentale, creando modelli fondativi, recepiti ed elaborati per secoli; a promuovere una capillare diffusione del suo stile fu egli stesso, quando decise di affidare i propri disegni ad incisori, contribuendo così ad amplificare la propria fama; in questo Anno Sanzio importa ricordare che la collezione del Gabinetto Disegni e Stampe della Pinacoteca Nazionale di Bologna conserva, ed espone in occasione della mostra - che avrebbe dovuto essere aperta al pubblico dal 4 marzo al 7 giugno correnti - dal titolo La fortuna visiva di Raffaello nella grafica del XVI secolo. Da Marcantonio Raimondi a Giulio Bonasone, molti degli esemplari che divennero immediatamente fonte di studio per numerosi artisti, i quali poterono affiancarli alla conoscenza diretta delle opere di Raffaello. Il lavoro di studio e ricerca che ha reso possibile la rassegna, condotto per la cura di Elena Rossoni è documentato dal catalogo di corredo edito per le Edizioni NFC di Rimini. Il fatto che sia dipinto su ormesino, raro lavorato di seta filato a Bologna e di fabbricazione tradizionalmente medioevale deriva verosimilmente dal fatto che l’artista era tornato ad adottare questo materiale pochi anni prima, nel 1631, quando si trattò di eseguire uno stendardo - con la Vergine e il Bambino ed i santi protettori di Bologna- come ex voto per la fine della peste. Depositato in San Domenico lo stendardo passò poi alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, ove tuttora si trova col titolo di Pala della Peste. In occasione del voto fatto alla Vergine del Rosario il giorno 2 agosto 1630, le autorità civili di Bologna commissionarono a Guido Reni, pittore di spicco e di grande fama in città e nel resto d’Italia, una pala che avesse la funzione di stendardo processionale. Oltre alla Vergine col Bambino, sono presenti i Santi Procolo e Floriano, patroni storici di Bologna, insieme a Petronio, Francesco, Francesco Saverio e Ignazio di Loyola, questi ultimi da poco canonizzati (1622) e nominati a compatroni della città in occasione del rinnovo del voto avvenuto il 4 settembre del medesimo anno. Reni realizzò nel giro di pochi mesi - avvalendosi, in questo senso, di un modello compositivo già presente nella sua produzione - la cosiddetta Pala della Peste, o Pallione del Voto, oggi conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna.»
Guido Reni, Madonna col Bambino in gloria e i Santi Protettori di Bologna Petronio, Francesco,
Ignazio, Francesco Saverio, Procolo e Floriano (Pala della Peste).
Su che materiale è stata dipinta l’opera?
«L’opera è stata dipinta su una particolare seta che veniva prodotta nel capoluogo emiliano, tessuto noto per la sua durevolezza nel tempo. Il contesto storico in cui rientrò la commissione fu l’episodio drammatico dell’epidemia di peste che non interessò solamente Torino, Milano, Mantova, Modena e Venezia, ma coinvolse anche la città di Bologna e il suo contado. Questo San Michele afferisce alle prime apparizioni di uno stile estremo di Guido, una sorta di conclusione del neoplatonismo che aveva sempre sorretto la sua poetica, come altresì la sua personalità di difensore della bellezza cattolica e del suo potere. Ispirata come detto ai noti esempi ideati da Raffaello più di un secolo avanti, la pala è condotta sin quasi al prosciugamento, all’esaurimento del tessuto cromatico, come si trattasse di tradurre l’idea in un arazzo o in uno stendardo.
«L’opera viene univocamente celebrata dalla storiografia artistica settecentesca come simbolo esemplificativo della teoria belloriana del bello ideale e dell’identificazione ideale - ciò di cui era consapevole lo stesso Reni come attesta una missiva, riportata da Bellori (che ricorda come Guido vantasse di «riguardare in quella forma ed idea che s’era stabilito»), inviata al maestro di casa di Urbano VIII, monsignor Giovanni Antonio Massani, - e che dal 1672 sigla l’origine della fama del dipinto, beneficiando infatti dell’incondizionata ammirazione della letteratura artistica francese oltre che dello stesso Winckelmann, colpito dalla sublimità dell’espressione dell’arcangelo che Reni era riuscito ad imprimere nel suo volto efebico.
«Reni è infatti colui che recepisce il messaggio di dolce crudeltà e di equilibrio classico di forme e che, pur trasformando la bellezza composta del volto dell’arcangelo in una bellezza sfaldata, ambigua e malinconica, ne mantiene intatta la potenza, lasciando altresì spiegare nel demonio l’idea della bruttezza.
«Del dipinto, che esprime l’ideale di bellezza angelica e di perfezione accademica del suo autore, riconosciuto assieme ad altre tele di Reni come simbolo inequivocabile dello stile e dell’immagine di Roma, il roveretano Adamo Chiusole, poeta e pittore dilettante e membro dell’Arcadia, così annotava nel terzo libro dell’Arte Pittorica (1768): «[...] Ma se altra brama ancor nudrendo vai / Di seguire e veder le portentose / Tele, che rinomar udito avrai, / Va l’Angelo a veder, che armato pose / Al nemico infernal ferree catene; / E intorno a lui più tavole famose [...]» e, nella nota di corredo, «Fra molti, e rari quadri che si trovano ai Cappuccini di Roma, è rinomatissimo il S. Michele di Guido, che viene frequentemente ricopiato non Solo da’ Studenti, ma dai Professori più chiari. [...]».
«L’arcangelo reniano appare quale citazione letterale del testo apocalittico (Ap 20, 1-3), protagonista dell’economia della salvezza quale protettore e difensore della cristianità contro le potenze infernali ed i nemici della chiesa. Da fedele cultore di Raffaello, Reni recupera e reinterpreta in chiave cristiana il neoplatonismo insito nel prototipo fissato dal maestro nella seconda versione del tema micaelita conservata al Louvre in cui supera l’interpretazione in chiave ancora cavalleresca del soggetto dipinta nella prima redazione di alcuni anni precedente.
«L’associazione del culto dell’Immacolata Concezione con quello dell’Arcangelo Michele nell’occasione di una grande pestilenza è dunque molto significativa, anche nel caso dell’arcangelo di Reni eseguito a ridosso della pestilenza romana del 1630-1631 proprio nella prima chiesa di Roma votata al culto dell’Immacolata, palesandosi il contrasto simbolico fra macchia e peccato, purezza e malattia per scongiurare la calamità ponendo la chiesa dei Cappuccini sotto la protezione dei due massimi custodi e difensori dell’umanità.»
Raimondo De Dominici, San Carlo Borromeo comunica gli appestati.
Esempi di altre opere che rinviano alle tragiche vicende della peste?
«Altra opera di sicuro pregio per il centro casertano di Marcianise è la tela di Raimondo De Dominici detto il Maltese (1644-1705) - realizzata in stretta sequenza cronologica con il San Michele per il cassettonato del duomo - ubicata al centro del soffitto della Rettoria di San Carlo e raffigurante San Carlo Borromeo comunica gli appestati derivazione dal modello romano di Pierre Mignard -, la cui ambientazione riconduce alle tragiche vicende della peste a Napoli del 1656; nell’impianto scenico i pestanti moribondi, isolati o in gruppo, possono apparire ciascuno visto per sé ma in realtà, tutti i personaggi accomunati nella sofferenza, portano ad esprimere una diversa concentrazione; essi risultano coordinati secondo linee parallele oblique precise; si noti, per esempio, come la donna che sta per ricevere l’ostia sacramentata (protesa con lo sguardo verso sinistra) si trovi in corrispondenza opposta con la donna priva di vita sdraiata sottinsù sui primi gradoni, e come le loro posizioni coincidano con la stessa linea obliqua, opera che molto probabilmente precede di qualche anno la Visione di San Giovanni della Croce, realizzata con più consumata perizia dallo stesso pittore per la chiesa di Santa Teresa agli Scalzi in Napoli nel 1682. In ambito napoletano il più importante monumento figurativo della peste del 1676 è rappresentato dagli affreschi votivi dipinti da Mattia Preti sulle porte della città; di questo ciclo, oggi perduto, sono noti due bozzetti preparatori con la Vergine e santi protettori ove Michele è raffigurato nei due momenti culminanti di sguainare e rinfoderare la spada; gli affreschi rientrano in una vasta iniziativa ideologica cittadina che sceglieva il culto della purificatione et Immacolata Concettione per proteggere Napoli dall’epidemia.
«Si consideri anche la rappresentazione di San Michele Arcangelo che compare rispettivamente nell’Intercessione di Maria Regina - pala con i Santi Stefano e Agata, patroni di Sant’Agata dei Goti, firmata e datata 1698 - e nella cupola dipinta a fresco della chiesa di San Sebastiano a Moiano nel territorio campano di Benevento - con l’arcangelo che dirige la spada fiammeggiante contro Satana armato di tridente -, particolare della Gloria celeste e opere di misericordia, ove le scene, in tutta la loro drammatica raffigurazione, richiamano alcune pale votive dipinte da Luca Giordano per la chiesa di Santa Maria del Pianto o le sopra citata scene della peste del 1656 che Mattia Preti eseguì per le porte di Napoli.
«Coniugando la fluente luminosità giordanesca ai rassodamenti di derivazione lanfranchiana, agli influssi pretiani nonché solimeneschi, Tommaso Giaquinto (c. 1703-1766) mostra in questi affreschi di aver elaborato un linguaggio espressivo dotato di un proprio carattere e di una personalissima capacità inventiva.»
Mattia Preti, Vergine, santi protettori e Michele Arcangelo
Che lettura dà dell’opera di Lorenzo Lippi «Madonna col bambino e Santi»?
«Quanto alla Madonna col Bambino e i Santi Rocco, Sebastiano, Antonio da Padova, Michele e Donato - un olio su tela di cm 189 x 203 - dipinta dal fiorentino Lorenzo Lippi (1606 -1665) nel 1634 per l’altare maggiore della chiesa di San Michele a Ronta nel Mugello, essa è chiaramente un ex voto per la peste degli anni 1630-1633; la presenza non casuale di tutti i santi raffigurati è stata letta in chiave devota per lo scampato contagio della comunità mugellana di Ronta, collocata in una zona strategica meno soggetta al contagio.
«La tela non si discosta dagli schemi ampiamente sperimentati nella bottega di Rosselli, con la Vergine e il Bambino da un lato, seduta su nembi oscuri, ed i cinque santi in basso, disposti ai lati in modo da lasciare al centro lo sfondo di paesaggio con la rappresentazione della chiesa titolare dell’altare a cui era destinata la pala.
«Le figure sono collocate nell’ampio impianto compositivo con notevole maestosità strutturale, dilatandosi i particolari delle decorazioni nella stesura pittorica; l’arcangelo, posto al margine destro della tela, quasi stesse per entrare nella scena, regge nella mano sinistra gli attributi identificativi - la bilancia e la spada - rivolgendo ricambiato il proprio sguardo alla Vergine; i volti dei cherubini che emergono dalle nuvole scure con effetti luministici contrastati, investiti dalla luce divina originata dalla squarcio del cielo non possono non ricordare le analoghe soluzioni adottate in quegli stessi anni dal fiorentino Cesare Dandini.»
Mattia Preti, Vergine, santi protettori e Michele Arcangelo.
Per quanto riguarda l’iconografia micaelita c’è qualche altro pittore di cui vorrebbe accennare?
«In relazione all’iconografia micaelita importa segnalare la famiglia fermana dei pittori Ricci - Ubaldo (1669-1731) e Natale (1677-1754) - che prosegue con Filippo (1715-1793) e suo figlio Alessandro (1750-1829) che traghettarono la bottega lungo tutto il Settecento sino ai primi decenni del secolo successivo. Di Alessandro va ricordata la tela - di cm 135 x 100 - raffigurante Santa Sperandia e San Michele Arcangelo, dipinta a pendant con Sant’Esusperanzio che benedice l’acqua lustrale per scongiurare la peste cui si avvicina per cronologia e stile, entrambe conservate nella sacrestia della collegiata di Sant’Esusperanzio a Cingoli.
«Nella seconda tela, di dimensioni analoghe alla prima, il soggetto si riferisce all’incontro fra papa Anastasio II e Sant’Esusperanzio nel corso del quale il futuro vescovo di Cingoli provoca la cessazione di una pestilenza in corso a Roma dopo aver benedetto la città con acqua lustrale, episodio narrato nella Legenda dedicata al santo conservata nell’Archivio Comunale di Cingoli; la scena interpretata con estrema chiarezza evidenzia il santo presule inginocchiato in abiti pontificali e provvisto di un grande pallio che ricorre anche nei dipinti murali della cripta; a sinistra un chierico reca un vassoio di rame con l’acqua benedetta e nel fondo Michele Arcangelo rinfodera la spada, ad indicare la fine della pestilenza; il dipinto è registrato nell’Archivio Diocesano di Macerata come opera del pittore eugubino Giuseppe Reposati (1722-1799) che nel 1781 realizzò gli sportelli sopra l’altare del santo nella cripta della chiesa.
«Santa Sperandia e San Michele è anch’essa censita nell’Archivio della Diocesi di Macerata come opera di Reposati da Gubbio - per una supposta analogia con le tele che chiudono l’altare del santo nella cripta della chiesa - raffigurante una «Maddalena e San Michele Arcangelo». Massimo Papetti ritiene di dover restituire entrambe le tele alla mano di Alessandro Ricci; segnatamente nella prima di esse il tono grigio-azzurro del fondo piatto, la figura dell’arcangelo e quelle dei putti richiamano a vicino la Morte di San Gaetano da Thiene della collegiata di Fermo dipinta verosimilmente nello stesso torno di tempo, nei primi anni dell’Ottocento. Lo stesso studioso ritiene che la santa vada però identificata in Sperandia - qui raffigurata come penitente - che vestì l’abito benedettino nel monastero dedicato a San Michele Arcangelo al quale è frequentemente associata nell’iconografia più antica.»
Daniela Larentis – [email protected]
Lorenzo Lippi, Madonna col Bambino e i Santi Rocco, Sebastiano, Antonio da Padova, Michele e Donato