«Il realismo magico di Gino Castelli» – Di Daniela Larentis
La mostra dedicata ai 50 anni di pittura di uno degli ultimi testimoni della grande tradizione pittorica trentina è visitabile fino al 23 dicembre a Trento
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Lo studio Foto Rensi di Trento, dopo le collettive d’arte trentina dedicate ai temi del sacro («I Segni del Sacro», 2013), del paesaggio («Paesaggi nell’arte trentina», 2014), e la mostra «Carlo e Gios Bernardi» (2015), presenta al pubblico una nuova importante esposizione dedicata a uno degli ultimi testimoni della grande tradizione pittorica trentina: Gino Castelli.
Dal carattere schivo, estremamente riservato, l’artista attraverso le sue raffinate opere offre l’incanto di una pittura intrisa di sentimento, sospesa tra sogno e realtà, più volte definita «realismo magico».
Una definizione che caratterizza perfettamente il suo modo di fare arte; il suo è un realismo trasfigurato poeticamente capace di suscitare una miriade di emozioni.
L’esposizione è visitabile fino al 23 dicembre 2016 in Via Marchetti a Trento.
Sottolinea Claudio Rensi: «Noi pensiamo sia importante offrire ad un pubblico sensibile alla bellezza dell’immagine –pittorica o fotografica- uno spazio di raccoglimento e condivisione.
Case che danzano sulla neve.
«La figura di Gino Castelli rappresenta per la comunità trentina uno degli esempi più coerenti di dedizione giornaliera all’attività tradizionale del pittore, intrapresa 50 anni fa a tempo pieno, dopo una pluriennale professione di cartografo e disegnatore tecnico.
«Una scelta coraggiosa, la sua, affiancata a quella della gestione (fino al 1989) di una Galleria d’arte in via Mazzini a Trento. Scelta ripagata da vari riconoscimenti e dichiarazioni di stima: fra tutte, quelle del critico Cesare Branzi, del pittore Guido Polo (che sempre lo incoraggiò) e, in anni più recenti, della saggista e critica d’arte nazionale Maurizia Tazartes (autrice, tra l’altro, di monografie su Pontormo e Rembrandt), di cui riportiamo alcune considerazioni nell’introduzione al catalogo.
«Un artista che negli anni ha affiancato i temi del paesaggio trentino e della figura con sfondi paesaggistici del nostro territorio ad un’ampia rappresentazione della laguna veneziana (Venezia e le sue isole) frutto di una lunga frequentazione di una realtà metafisica che lo ha profondamente ammaliato.
«La selezione delle opere in mostra evidenzia proprio tali due anime che fanno dell’artista ottantasettenne una delle figure di maggior spicco dell’arte trentina del secondo Novecento, degno prosecutore di una linea alta del genius loci pittorico che soprattutto a partire dalla pittura di Tullio Garbari ha saputo elevare l’amore per la propria terra in forme metafisiche di respiro universale.»
E scese il silenzio.
Due parole su Gino Castelli.
Nasce a Riva del Garda il 15 agosto del 1929 da Mario Castelli, un musicista originario di Trento e da Maria Dadié di Cortina d’Ampezzo.
Poco dopo la famiglia si trasferisce a Trento e Gino trascorre la sua infanzia nel quartiere periferico dei Casoni (Vaticano), in compagnia, tra gli altri, dei fratelli Maestri.
In seguito all’improvvisa scomparsa del padre, perito sotto il bombardamento alleato del maggio 1944, è costretto a lasciare gli studi per provvedere ai bisogni della famiglia.
La passione per Goldoni e l’amicizia con Cesco Baseggio - favorita dalla frequentazione dei Maestri - lo fanno innamorare di Venezia.
Inizia, negli anni Cinquanta, un lungo apprendistato nel campo della grafica pubblicitaria e del disegno tecnico edile.
Il 5 luglio 1955 sposa Elisa Micheli di Lona-Lases che diverrà la modella ricorrente nei suoi dipinti.
Negli anni Sessanta apre un piccolo studio di grafica e cartografia presso Vicolo Galasso a Trento, in collaborazione con l’amico fotografo Luciano Eccher.
Dalla metà degli anni Sessanta trascorre lunghe estati a Palù dei Mocheni, dove inizia a dipingere le prime tavole ad olio su motivi paesaggistici colti dal vero.
Nel 1967 inizia ad esporre le proprie opere (paesaggi, nature morte, figure in interni) a Levico, Cles, Trento, Novara, e vince, ad Arco, il premio di pittura «Segantini».
Cristo Mocheno - disegno a tecnica mista.
Nel 1970 incontra a Milano il pittore Umberto Lilloni che lo accosta a Rousseau il Doganiere e a certa pittura giapponese (nei disegni).
Negli anni Settanta espone nei periodo estivi a Cavalese, richiamandosi in parte, nella propria ricerca, al sintetismo di Gino Rossi e Tullio Garbari.
Dal 1972 gestisce in via S. Vigilio a Trento (dietro al Duomo) la Galleria «La Tavolozza», che chiuderà nel 1989.
In questo periodo verrà apprezzato e stimolato nella sua ricerca dal pittore Guido Polo. In occasione di una personale presso tale galleria dell’artista Gina Roma, Castelli inizia un rapporto di stima e affetto col critico Silvio Branzi.
Dalla fine degli anni Ottanta inizia a frequentare con regolarità Venezia e le isole lagunari, disegnando in vari taccuini una Venezia minore, fatta di particolari, dettagli, fantasmi architettonici. Da tali suggestioni nasce una nuova sensibilità cromatica che porterà ad una produzione pittorica contraddistinta da una luminosità più chiara e diffusa nei soggetti lagunari.
Negli anni Novanta (fino al 2006) espone con continuità presso la Galleria «Polvere» di Trento.
Nel 2000 è presente nel catalogo della «Collezione permanente degli artisti contemporanei» della Banca di Trento e Bolzano. Dal 2002 intrattiene un proficuo rapporto epistolare con il critico e storico d’arte Maurizia Tazartes.
Nel 2003 partecipa ad «Arte trentina del ’900. 1975-2000» presso Palazzo Trentini, nel 2005 alla collettiva curata da Maurizio Scudiero «La collezione di opere d’arte della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige» presso il Palazzo della Regione a Trento.
Sempre nel 2005 è presente nel catalogo Mondadori (a cura di F. Lancetti) «L’arte nel Trentino dall’Ottocento alla contemporaneità».
Nel 2013 espone alla mostra «I segni del Sacro» presso lo Studio Rensi di Trento.
Nel 2014 la sede espositiva di Palazzo Trentini accoglie una vasta antologica di oli e grafiche («Paesaggi dell’anima»).
Nel 2016 questa mostra, in occasione della quale abbiamo avuto l’onore di porgergli alcune domande.
Quando è nato l’amore per la pittura e quali sono le tecniche da lei utilizzate?
«L’amore per la pittura è nato negli anni Sessanta. Dipingo ad olio su tela, mi preparo io le tele secondo il metodo tradizionale, utilizzando colla di pesce e gesso di Bologna. Il fondo è molto omogeneo e non assorbe il colore, restando molto morbido e delicato.»
Ci sono colori che lei predilige?
«Amo l’azzurro e il blu, i colori del sogno. Mi piace molto il verde nelle varie tonalità.»
Ci può raccontare brevemente un episodio legato alla sua esperienza di cartografo?
«Io lavoravo con l’editore Monauni. Aveva un negozio di fronte al Super cinema. Era un personaggio stimato in città, io lavoravo per lui, pubblicava le mappe di Trento che disegnavo.
«Era molto onesto, molto serio, i miei disegni li pagava subito. Feci almeno cinque edizioni delle piante di Trento, ero l’unico all’epoca a fare quel tipo di lavoro.»
Perché le case che lei dipinge sono spesso prive di finestre, cosa sta a significare la loro assenza?
«L’assenza di finestre simboleggia il silenzio assoluto. Le abitazioni immerse nel silenzio della natura. A Venezia invece ho dipinto le finestre: lì ho trovato un altro ambiente, altre persone, un’altra apertura culturale, una grande cultura che viene dal passato.»
In «I luoghi del silenzio» o in «E scese il silenzio» e simili che significato assume il luogo abitato, la città?
«Trento la vedo come città medievale. Io l’ho dipinta sempre come città medievale, con le sue torri, i suoi campanili.»
Fra i vari artisti del passato c’è qualcuno più d’altri che le piace maggiormente e perché?
«Toulouse Lautrec, il grande disegnatore francese dell’Ottocento. Mi piace anche molto il nostro Segantini, naturalmente, e altri.»
Qual è il messaggio principale che desidera trasmettere attraverso le sue opere?
«La poesia del silenzio che adesso non esiste più. Il silenzio della natura incontaminata, degli alberi, dei paesini di montagna, delle stradine che si perdono nei boschi. Io sono un uomo silenzioso…»
Verso il monte di Roccapiana.
Secondo lei, in un mondo dilaniato dalle guerre, un mondo globalizzato dove tuttavia le distanze da colmare fra i popoli sono ancora profonde, nonostante la tecnologia ci illuda del contrario, che funzione potrebbe avere l’arte?
«La funzione che dovrebbe avere l’arte è quella di educare. Non esiste più l’arte come la intendo io, l’arte che trasmette emozioni.
«Ora esiste il tutto del niente e del nulla. Ripeto, il tutto del niente e del nulla. Questo non è educare, è l’opposto. Il fine dell’arte è la bellezza.»
Cosa rappresenta per lei, dal punto di vista emotivo, la città di Venezia?
«Aprire una porta ed entrare in un altro mondo. Questo è stato Venezia per me. Ho scoperto Venezia negli anni Ottanta e l’ho frequentata e studiata per 30 anni, sestiere dopo sestiere, visitando mostre, musei, chiese, ponti, calli, callette, campi, percorrendola metro per metro, centimetro per centimetro.
«L’ho studiata a fondo per capirla e per amarla. Vorrei dire alla gente di non recarsi a Venezia soffermandosi solo davanti a Piazza San Marco, ma di girarla tutta, lungo le fondamenta, anche nelle zone meno turistiche.»
Qual è il complimento che più le ha fatto piacere in questi lunghi anni di attività?
«Mi piace molto la definizione di realismo magico riferita alla mia pittura, è un realismo trasfigurato poeticamente.»
Invitiamo tutti a visitare questa splendida mostra, estendendo il consiglio anche ai molti turisti che in questi giorni si recano a visitare la nostra città.
Daniela Larentis - [email protected]
Piccolo Pierrot.