Il Coronavirus e la solitudine degli anziani – Di Nadia Clementi

Ne parliamo con il dott. Fabio Cembrani medico-legale e Direttore della Unità Operativa di Medicina legale dell’Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento

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Al tempo del Coronavirus sono gli anziani a soffrire più di tutti, poiché i provvedimenti legati all’emergenza sanitaria li confinano in casa o nelle residenze per anziani, spesso in una solitudine più dolorosa che mai.
Improvvisamente, in pochi mesi, le persone anziane si sono trovate a vivere da uno stato d’animo di relativa tranquillità a uno di insicurezza, obbligati a restare nella propria abitazione, con informazioni incerte, e con le televisioni che parlano di situazioni sempre più drammatiche che si susseguono.
Questa nuova realtà deve provocare grande preoccupazione in chi si occupa di salute e di servizi sociali, perché la fragilità peculiare degli anziani, connessa alla solitudine, li espone a maggiori rischi per la sopravvivenza.
 
Appare illogico creare solitudine per proteggere: vista la battaglia condotta negli anni contro la solitudine costruendo reti, centri sociali e università della terza età.
Ma, ora, la solitudine è la salvezza. Psicologicamente è un trauma fortissimo: la solitudine fa vivere la persona in un tormento che ha conseguenze, spesso drammatiche, sulla salute, molto più gravi di quanto si pensi.
Gli anziani soli si curano poco di se stessi, affermano che sia inutile qualsiasi tentativo di migliorare la propria condizione, si concentrano su di sé senza desideri e speranze di cambiamento, non si preoccuperanno più o avranno difficoltà a effettuare controlli clinici e dei parametri biologici.
 
Poi vi è la solitudine degli anziani nelle case di riposo.
In questo periodo il sentimento che comunicano è quello di sentirsi «soli, abbandonati, impotenti, impauriti» e alcuni piangono nonostante le telefonate, i messaggini, le videochiamate, ma che non riescono a sostituire la visita del parente, dell’amico.
E poi abbiamo gli anziani con Alzheimer o altre malattie, che hanno uno stadio di grave non autosufficienza.
Per loro ovviamente il telefonino non è una soluzione, perché il malato di solito ha un esclusivo filo comunicativo che lo unisce a una persona scelta come unico contatto con il mondo esterno; l’interruzione di questo dialogo genera grave sofferenza.
 
Poi ci sono anche gli anziani che per motivi anche differenti al Covid 19 sono ricoverati in ospedale, e che non possono essere assistite dai familiari, per la limitazione o il divieto posti agli ingressi nelle strutture ospedaliere.
Per ultimo, ma forse l’aspetto più tragico, la solitudine di fronte alla morte, l’idea di doverla affrontare nella solitudine, senza la possibilità di congedarsi dai propri cari. Nessuno merita di morire in solitudine, neppure in una circostanza come l’attuale.
Abbiamo condiviso questo triste ma importantissimo argomento con il dott. Fabio Cembrani, medico-legale, già Direttore della U.O. di Medicina legale dell’Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento, da poco in pensione.
 

 
Dott. Cembrani, il Coronavirus colpisce e uccide in particolare i più vecchi, al punto che si è diffusa una narrazione del tipo «in fondo muoiono solo anziani e malati», una sorta di lato positivo. Come pensa che possa vivere la situazione chi è anziano o malato?
«Che il Covid-19 porti a morte prevalentemente le persone anziane non è, purtroppo, una novità anche se nella fase in cui la pandemia ha ripreso forza l’età media delle persone ricoverate è di 45-50 anni. Sappiamo però che, nella prima fase dell’ondata pandemica, l’età media dei deceduti positivi al Covid-19 è andata progressivamente crescendo da marzo a giugno al punto che se si prendono i dati numerici prima del 4 maggio e dopo questa data si passa da 79,8 a 82,5 anni.
«Questo secondo i dati pubblicati dall’Istituto superiore di sanità, accessibili a tutti sul Web. Non sappiamo però ancora le ragioni del perché gli anziani muoiano più facilmente dei giovani e non credo che questo sia dovuto solo all’esistenza, in questa larga fascia della popolazione italiana, di altre patologie, le famose comorbilità che affliggono in Italia oltre 8 milioni di persone.
«Oltre a quelli biologici, potrebbero esserci in gioco altri fattori legati all’assistenza sanitaria, ad una migliore capacità di trattamento dell’infezione e ad una migliore organizzazione nel contrasto dell’epidemia perché il numero dei tamponi è ampiamente cresciuto e perché oggi essi vengono eseguiti anche sulle persone anziani residenti nelle RSA quando, a marzo, questa fascia di persone non veniva testata, per ragioni a me incomprensibili.
«Quello che è però altrettanto vero è che l’età media dei casi diagnosticati in queste settimane in cui il virus ha ripreso forza e vigore si è abbassata di almeno 6-7 anni rispetto alla scorsa primavera e ciò aiuta a spiegare una riduzione del rischio di mortalità anche se i numeri continuano ad essere, purtroppo, allarmanti.
«Gli anziani e le persone fragili sono, dunque, persone particolarmente suscettibili a sviluppare un’infezione conclamata da Covid-19 con sintomi importanti non solo a carico delle vie respiratorie che richiedono la loro ospedalizzazione anche se queste persone, per quanto dimostra l’attuale andamento della curva epidemica, sono risultate, sul piano dei comportamenti individuali, più virtuose rispetto alle generazioni più giovani pur essendo state oggetto di numerosi stigmi e di restrizioni particolarmente forzate. Le quali hanno sicuramente inciso sul loro stato di salute essendo oramai noti, sul piano scientifico, gli effetti patogeni della solitudine e dell’isolamento sociale che, come dimostrato dai coniugi Cacioppo (2015) e da Vivek Murthy (2017), sono associati a una riduzione della speranza di vita rappresentando un fattore di rischio simile all’aver fumato 15 sigarette al giorno per 40 anni e un fattore di rischio addirittura maggiore rispetto all’obesità, incrementando del 26% il rischio di mortalità prematura.
«Tenendo presente che il lockdown imposto alle persone più fragili ed agli anziani per contenere la diffusione dell’infezione, accanto al contesto di paura e di colpa di essere potenziale vittima o causa di trasmissione del virus, ha sicuramente incrementato la discrepanza soggettiva tra la situazione sociale effettiva e quella desiderata (Käll et al. 2020), il senso di vulnerabilità auto-percepita, i disturbi acuti da stress, i sintomi da distress post-traumatico e una maggior propensione a vivere stati d’ansia e di insonnia anche nei giorni immediatamente successivi alla fine dell’isolamento (Bai et al. 2004; Brooks, Webster et al., 2020).
«Ciò a conferma del fatto che gli anziani non possono essere confinati e che la loro protezione richiede specifici interventi finalizzati alla loro inclusione sociale con strumenti digitali di comunicazione e di social network, mettendo anche a loro disposizione dei mediatori informatici che possano aiutare soprattutto chi non ha familiarità con i nuovi dispositivi tecnologici come ripetutamente raccomandato da AGE Platform Europe e dal Comitato nazionale per la bioetica. Pensare ad un lockdown generazionale confinando a casa i vecchi è una misura assurda ed inutile a meno che non decida di farli morire non di Covid-19 ma di solitudine. Su questo bisogna essere fermi. Gli anziani meritano rispetto e vanno difesi, non contenuti.»



Il Coronavirus e gli effetti sulla popolazione anziana. La paura di essere soli anche nelle case di riposo dove magari sono abituati ad una certa socialità oppure in ospedale, a casa loro. La paura che si fa solitudine, che li fa sentire dei dimenticati… Cosa possiamo fare? Come è possibile gestire il senso di isolamento?
«Non ho ricette valide che posso magicamente estrarre dall’abecedario della nonna e non ho più la possibilità di incidere sulle scelte di sanità pubblica non essendo più nel ruolo che ho ricoperto per più di 25 anni. La sua domanda andrebbe, quindi, rivolta a chi ha oggi la responsabilità delle scelte di politica sanitaria, a livello locale all’Assessore provinciale alla salute Stefania Segnana, al Direttore generale dell’Azienda sanitaria dott. Pier Paolo Benetollo con il quale abbiamo organizzato il 6 ottobre scorso un Seminario sulla difesa degli anziani al quale ha partecipato anche il Vescovo di Trento e al Direttore dell’integrazione socio-sanitaria dott. Enrico Nava.
«Ciò che posso dirLe è riportare le proposte fatte a livello internazionale perché la pandemia da Covid-19 ha messo in evidenza quattro importanti questioni: (1) il valore della solidarietà fra le generazioni senza discriminazioni e stigmi ageistici; (2) la necessità di controbilanciare il distanziamento fisico con una più forte vicinanza sociale, sia pur attuata con modelli nuovi; (3) l’attenzione alla protezione e al rispetto dei diritti umani delle persone più deboli e, fra queste, degli anziani in particolar modo; (4) non da ultimo, l’esigenza di ascoltare anche la loro voce nel programmare le misure per un graduale ritorno alla ripresa della normalità.
«Ciascuna di esse merita forte attenzione perché il futuro della pandemia dipenderà non solo dal vaccino che si sta già sperimentando in molti Paesi ma dalla nostra capacità collettiva di essere protagonisti di quel dovere di cui si fa artefice l’art. 2 della nostra Carta costituzionale: la solidarietà sociale. Un dovere costituzionale inderogabile (e non solo manifestazione di magnanimità o di benevolenza) che configura lo Stato stesso come sua estrinsecazione e prefigura una evoluzione del modo di interpretare il diritto/dovere di cittadinanza rendendo ciascuno responsabile della soddisfazione dei bisogni altrui e aperto verso la società.
«Un’utopia, secondo qualcuno, ma un’utopia non solo razionale ma soprattutto necessaria (Rodotà, 2016) che supera le distanze esistenti e la cultura dell’indifferenza e che riemerge oggi in una modalità nuova, poco sperimentata dai più giovani: la solidarietà dovuta alle persone più anziane con la messa in atto di comportamenti realmente responsabili per contenere la propagazione del contagio che, nelle seconde, non è purtroppo quasi mai asintomatico.
«Senza stigmi perché gli anziani non siano nuovamente posizionati nella schiera degli umiliati e degli offesi (Trabucchi, 2020).
«Umiliati perché gli anziani si sono spesso trovati ai margini degli interventi di sanità pubblica sia nelle case di riposo, sia nelle proprie case e sia negli ospedali; offesi perché percepiti come un peso insostenibile per l’organizzazione, solo dei costi economici e non nel pieno diritto di essere parte attiva della nostra comunità. Al punto tale da essere considerate persone poco degne, addirittura discriminate nell’accesso alle cure rianimatorie salvavita da alcuni sconsiderati documenti (quello ad esempio della SIAARTI) che riducono la vita a sola quantità (speranza di sopravvivere) con un coro, inespresso o apertamente detto: …tanto sono dei vecchi. Perché questo dono prezioso non può soggiacere a queste logiche ed alla cultura dello scarto più volte censurata da Papa Francesco. E perché la fragilità e la vecchiaia sono parte stessa dell’umano che non può ad esse mai rinunciare se non a scapito di tradire l’idea stessa di umanità.»
 

 
Stanno emergendo situazioni preoccupanti nelle RSA, quali errori sono stati? Cosa si poteva fare di più? O meglio, cosa non si è fatto? E cosa si può ancora fare?
«Di errori commessi ce ne sono stati tanti ma quello che più mi inquieta è l’impreparazione, il cinismo e la superficialità con cui si sta affrontando questa seconda ondata pandemica senza tener conto dell’esperienza maturata in primavera. Allora poco si sapeva del virus, di questo meno di niente che ha messo in ginocchio il mondo, di questo grumo di RNA che, con un salto di specie di cui il genere umano deve assumersi la piena responsabilità, ha deciso di abbandonare il pipistrello per venire a trovarci, ad infettarci, a farci ammalare e morire.
«Di questo virus adesso sappiamo molto di più anche se ancora troppo poco pur essendo stati testimoni della sua virulenza e della nostra cieca impreparazione causata anche dai profondi tagli che la sanità pubblica italiana ha subito a partire dal Governo del rigore presieduto da Mario Monti (37 miliardi di Euro in meno secondo i dati del GIMBE).
«Con riduzione dei posti letto ospedalieri (21 mila posti in meno) sottodimensionando le terapie intensive, con quel mancato potenziamento della medicina del territorio che era necessario se si voleva davvero curare i malati mantenendoli a casa, con la mancata rivisitazione del nostro sistema di welfare ancora basato sull’anacronistica differenziazione della disabilità con una tutela fatta prevalentemente di modesti casch benefits con delega alla famiglia del peso dell’assistenza.
«A ciò aggiunga l’ottusità degli amministratori pubblici, la privatizzazione della sanità e la cronica mancanza di specialisti per le politiche sconsiderate del MIUR che ha continuato a tagliare i posti nelle scuole di specializzazione, l’invecchiamento dei medici senza ricambio generazionale ed il mancato investimento sulle professioni sanitarie (gli infermieri, le ostetriche, il personale tecnico addetto all’assistenza, ecc.) che continuano ad essere sottopagate e non considerate risorse su cui investire. Vede, la sanità pubblica sembrava un lusso che non ci potevamo più permettere ed un parco-giochi in cui tutti potevano entrare senza pagare il biglietto per tagliare, risparmiare, razionalizzare ed efficientare perché questa è stata la sola parola d’ordine dell’aziendalizzazione del Servizio sanitario nazionale.
«A scapito naturalmente dei bisogni delle persone anche se la retorica stucchevole continuava a ripetere che la persona doveva essere il baricentro delle nostre azioni professionali chiedendo ai medici un sussulto di sano umanesimo. Che c’è stato nella pandemia perché i professionisti piegati dalla fatica nei loro volti tumefatti dall’esigenza di indossare tutta una serie di aggeggi protettivi per non infettarsi, proclamati ad iniziali eroi di una guerra che per fortuna non c’è stata, sono stati poi abbandonati nuovamente a sé stessi, senza far nulla per metterli nelle condizioni di non ripetere quelle drammatiche esperienze.
«Si potrà dire che 5 mesi erano pochi per far qualcosa anche se ciò non è vero perché si poteva e si doveva almeno iniziare ad affrontare i problemi. Non lo si è fatto irresponsabilmente sperando nella tregua del virus, del suo affaticamento e della sua pigrizia dimenticando che questi microscopici esseri biologici hanno un orologio biologico dal sincronismo perfetto e che esso si sarebbe ripresentato, forse più forte di prima per la sua capacità di mutare e di adattarsi alle diverse condizioni di vita, alla nostra immunità ed ai rimedi terapeutici che pur hanno dato qualche buon risultato anche se tutta la discussione si concentra oggi sul vaccino annunciato dalla Pfitzer americana e dalla sua consociata tedesca. Del quale poco o nulla sappiamo perché ancora in fase di sperimentazione nonostante gli annunci roboanti che hanno fatto volare in borsa i titoli di quella multinazionale. Le nostre grida d’allarme, mi creda, ci sono state ma esse sono rimaste a lungo inascoltate e c’è voluto questo virus per far capire a tutti che la salute è un bene pubblico indispensabile che bisogna difendere e conservare.
«Quando, nel mio ruolo istituzionale, dicevo e scrivevo che non si aveva più alcun margine di compensazione e che una banale influenza di un Collaboratore metteva a rischio l’ordinario nessuno rispondeva e le mie grida di dolore sono rimaste sempre inascoltate.»
 

 
L’Alzheimer ai tempi del Covid, una doppia solitudine: che fare?
«Non parlerei solo delle persone dementi perché molti altri sono gli invisibili di questa pandemia: oltre agli anziani, i disabili, le persone più fragili e vulnerabili, alcune categorie di lavoratori (quelli stagionali, quelli addetti alla lavorazione delle carni, le badanti), i bambini che hanno subito i contraccolpi del “lockdown” non potendo andare a scuola per un lungo periodo e le loro mamme costretto a lavorare da casa in “smart working” ed a seguirli nelle lezioni in remoto. Invisibili che non hanno avuto modo di far sentire la loro voce anche perché il nostro focus attenzionale era rivolto all’economia ed alla ripresa dei consumi.
«Personalmente sono stato testimone del loro dolore ed ho incontrato genitori che non sapevano cosa fare perché la chiusura delle strutture residenziali diurne e delle cooperative sociali hanno drammaticamente incrementato il bisogno dei loro figli disabili con espressioni sintomatologiche diverse dall’aggressività ai disturbi del comportamento alimentare che non trovavano risposta nei servizi chiusi al pubblico in primavera perché non in grado di garantire quelle misure precauzionali necessarie a contenere la diffusione del virus.
«A questi invisibili non ho mai sentito dedicare una parola nelle tante conferenze stampa e nei ripetuti talk show televisivi in cui improvvisati esperti e pseudo-esperti hanno continuato a snocciolare dati statistici ai più incomprensibili: veri e propri bollettini di guerra con il numero dei morti, dei feriti (gli infettati), dei ricoveri in terapia intensiva, dei guariti e dell’indice di contagiosità (il famoso Rt): un indice tecnicamente complesso, soggetto a numerosi passaggi istituzionali, che presenta numerosi limiti e, soprattutto, fotografa un quadro relativo a 2-3 settimane prima usando lo specchietto retrovisore invece del binocolo come ha giustamente osservato, in questi giorni, il Presidente del GIMBE nel Report settimanale della Fondazione. Perché questo virus non si può rincorrere come ci si ostina colpevolmente a fare.
«Che fare? Difficile dirlo anche se mi ostino a credere che contro il Covid-19 servano altri cantieri di lavoro senza essere disfattisti o troppi idealisti. Serve solidarietà e fraternità rimettendo al centro di tutta la discussione la dignità umana. Servono idee realistiche, soluzioni facili da mettere in campo, concrete ed i cui effetti non si facciano attendere a lungo perché ciò a cui occorre guardare non è soltanto l’economia ed il collasso del Servizio sanitario nazionale ma i bisogni reali e concreti delle persone; senza considerarle un anonimo numero per dare loro una parola di speranza e renderle maggiormente consapevoli sul fatto che la crisi si combatte con l’apporto di tutti.
«Non servono nuovi santi e nuovi eroi ma una buona dose di volontà, di rigore e di responsabilità pubblica. Non già per riconoscere in ciò che è accaduto l’occasione del nostro definitivo riscatto escatologico quanto per restare aderenti ai dati di realtà che non si possono né mistificare né travisare né manipolare. Riconoscendo, al di là delle idee complottiste, che il salto di specie è frutto dell’umana irresponsabilità che ha sovvertito l’ecosistema rompendo quell’equilibrio della natura che porterà sicuramente all’emergere di altre pandemie se il nostro futuro non sarà più rispettoso, più verde, più ecologico o più green.
«Ammettendo le nostre colpe e riconoscendo che serve un nostro maggiore impegno nei gesti e nelle abitudini di tutti i giorni, con sana consapevolezza e rispetto. Impegno per farci carico del nostro destino e di quello delle generazioni future; consapevolezza sul fatto che ciascuno di noi è l’artefice del cambiamento che si compone di piccole cose, di gesti gratuiti, di piccole azioni responsabili come indossare le mascherine, cambiarle con regolarità, mantenere la distanza di sicurezza ed uscire di casa solo per esigenze primarie; rispetto verso gli anziani e le persone più fragili che si appellano a noi chiedendoci solidarietà, fraternità ed il riconoscimento concreto della loro dignità.
«Rispondo, tuttavia, alla sua domanda riguardante le persone dementi con alcuni consigli che si possono dare riprendendo le indicazioni date, proprio in questi giorni, dall’Associazione italiana di Psicogeriatria con un decalogo che può essere davvero utile ai loro familiari e/o a chi si prende cura di queste persone:
(1)    Lavare le mani con frequenza aiutando le persone con demenza a fare altrettanto. Il disinfettante a base di alcool può essere una buona alternativa, quando il lavaggio con il sapone fosse difficile. Quando si incontra, anche da lontano, qualche persona che non vive nella casa indossare la mascherina. Controllategli la temperatura se vi sembra che abbia una condizione di malessere o notate un cambiamento inusuale del suo comportamento.
(2)    Non smettere i controlli periodici necessari per conservare la salute, se questi non sono stati cancellati a causa della pandemia. Non esitate a chiedere l’intervento del medico di famiglia se lo ritenete importante. I centri di cura delle demenze (CDCD) in molte regioni hanno continuato a funzionare anche durante la crisi. Prima della visita può essere organizzato un contatto telefonico per aggiornare la situazione e avere tutte le notizie utili, in modo da ridurre al minimo i tempi di visita in ambulatorio. Alle volte con una telefonata o con una videochiamata si possono ricevere le risposte agli interrogativi, rendendo così non più necessaria la visita di persona.
(3)    Limitare al massimo i contatti diretti con i nipoti e con altri parenti non conviventi. Nel caso fosse necessario incontrarli, pretendete che prima di entrare in casa si lavino le mani e indossino le mascherine, restando comunque ad almeno un metro di distanza. Questa sospensione dei contatti non deve far temere un allontanamento delle persone più care. È un momento di grande fatica psichica, che però può esser compensato dalla certezza di un futuro di affetti rivitalizzati. Ciò vale ancora di più per le persone con demenza, che in molti casi non portano la mascherina. Se è necessario entrare in contatto con altri non conviventi, ad esempio nipoti, questi devono indossare una mascherina pulita, possibilmente filtrante (FFP), perché entrambi siano protetti.
(4)    L’attività fisica intorno all’abitazione non è proibita per le persone anziane, ma anzi è fortemente consigliata. Conservare una regolare attività fisica, uscendo per brevi percorsi attorno all’abitazione e predisponendo all’interno della casa, se possibile, piccoli spazi per il movimento. Ogni ora abbandonare la sedia o la poltrona per 5 minuti di movimento. Per la persona affetta da demenza è necessario mantenere uno spazio in cui muoversi in sicurezza, sia all’interno che all’esterno, se possibile.
(5)    Mantenere abitudini alimentari simili a quelle di sempre. A chi ci fornisce il cibo dare indicazioni precise che permettano di mantenere un’adeguata alimentazione, in particolare con cibi freschi. Non alterare la routine e, al contrario, cercare di contrastare la tendenza al dimagramento nelle fasi severe della demenza, non tanto aumentando la quantità di cibo ad ogni pasto, ma moltiplicando il numero dei pasti e degli spuntini (risveglio naturale, colazione, metà mattina, mezzogiorno, merenda, cena, tazza della buona notte).
(6)    Impegnarsi a tenere contatti frequenti attraverso tutti i mezzi di comunicazione disponibili (telefono fisso, cellulare, videochiamate) con parenti e amici. Non abbiate timore di disturbare chi vive fuori dalla vostra casa; spesso sono anche loro ansiosi di potervi sentire, per aver notizie vostre e della persona cara che curate. Concordate il più possibile gli orari e i momenti che permettano anche alla persona con demenza di comunicare, magari con il vostro supporto. Chiedete aiuto ai nipoti, avvezzi ad utilizzare questi strumenti, per addestravi al loro uso efficace (smartphone, tablet, computer). È utile mantenere un buon livello di simulazione dell’assistito; va però messa in atto senza essere ossessivi, mirando al benessere più che alla prestazione in sé.
(7)    Cercare di riempire al meglio la giornata. Se siete abituati a leggere i giornali continuate a farlo; gli edicolanti sono disponibili a portare a casa il vostro quotidiano preferito. Non temete i contatti; nel caso, il giornale può essere lasciato fuori della porta. Se sapete usare gli strumenti elettronici, anche la versione online può essere utile. Se possibile, discutete di quanto leggete con il vostro caro ammalato.
(8)    Scegliere con attenzione gli spettacoli televisivi e i film più interessanti (cercando di non addormentarvi!). Seguiteli e poi, se possibile, discutetene assieme. Non accendete però troppe volte la televisione con i programmi che parlano della pandemia. Potrebbero avere un effetto negativo sia sulla persona con demenza, sia su chi lo assiste. Una volta al giorno è sufficiente. Ascoltate piuttosto della buona musica; anche le persone con demenza grave sono spesso in grado di apprezzarla.
(9)    Avere tempo per sé è essenziale per tutti. Chi si occupa di una persona con demenza, anche se pensa di farcela da solo, dovrebbe sempre avere un aiuto, in modo da poter avere momenti di svago e di movimento. Non utilizzare questi momenti di libertà per svolgere altri lavori (ad esempio, riordinare la casa, cucinare). La cura non deve mai diventare una prigione per chi si occupa di una persona con demenza.
(10)    Cercare di mantenere un atteggiamento sereno se la persona affetta da demenza dimostra di soffrire per il cambiamento dell’atmosfera attorno a lui e progressivamente diviene irrequieta, aggressiva, non dorme, mangia poco. Quel disagio ha precise ragioni e non è dovuto a cambiamenti nell’evoluzione della malattia. Se il cambiamento che osservate è invece improvviso e repentino, e magari contemporaneamente vedete un rialzo anche modesto di temperatura, allora è meglio avvisare il medico in modo da adeguare le cure per la condizione fisica e per lo stato mentale.»
 

Il libro «Il virus che abbiamo inCoronato a re» esce nelle librerie il 15 dicembre.
I disegni sono delle nipotine Chole in frontespizio e Sophie in quarta di copertina.
 
La tragica solitudine anche di fronte alla morte, cosa si può fare?
«Tutti abbiamo negli occhi l’immagine dei camion militari che, in rigorosa fila, trasportavano, partendo dall’Ospedale di Bergamo, dirette verso gli impianti di incenerimento le salme dei morti da Covid-19 avvolte in sacchi di plastica. Quelle immagini non le dimenticheremmo mai come non dimenticheremmo mai le sepolture ridotte al culmine della pandemia e la sofferenza dei tanti familiari che non hanno potuto salutare ed abbracciare il loro congiunto nel momento della morte e prima della sua inumazione.
«Non si dovevano trasmettere in tv quelle orribili scene andate in onda in una fascia serale in cui anche i nostri figli e i nostri nipoti le potevano vedere. Lo trovo irresponsabile anche se ciò che è reale è che il virus è arrivato anche a toglierci il diritto di morire e di vivere la nostra morte con dignità con addii spesso fatti via WhatsApp con un minimo contatto visivo. Qualcosa si è però mosso almeno nell’Azienda ospedaliera di Padova dove il nostro ex Direttore generale aziendale Luciano Flor ha autorizzato i familiari dei malati di Covid-19 ad entrare nelle corsie di degenza per dare un ultimo saluto al proprio caro.
«Da un punto di vista pratico si tratta di un accesso alla stanza di degenza con le tecniche di protezione previste per medici e operatori sanitari soltanto che a utilizzarle sono i familiari, come se accedessero a un reparto di terapia intensiva. Le precauzioni sono molto stringenti e sono precedute dall’effettuazione di un tampone per evitare che chi entra in corsia sia una persona portatrice del Covid-19 prevedendo l’accesso in stanza di un solo familiare. Se lo ha fatto Padova mi chiedo perché ciò non possa essere realizzato anche a Trento e su questa decisione credo che un amplificatore del bisogno di umanizzare la morte di queste persone dovrebbe essere il Comitato di bioetica aziendale.»
 
Questo virus ci ha tolto ogni segno di affetto, impedendoci di abbracciarci e di darci la mano. Crede che questa forzata «astinenza» ci porterà a dare più valore a certi gesti? In generale possiamo imparare qualcosa da quello che sta succedendo?
«Probabilmente smentendo le Sue attese dico subito che questo virus non deve ingannarci provocando in noi reazioni sbagliate. Il Covid-19 non appella quei cambiamenti di rotta e non ci dà alcuna lezione anche se proprio stamattina leggevo di un tal don Livio Franzaga, direttore di Radio Maria, il quale ha detto che l’epidemia è stata architettata dal demonio per colpire l’Occidente per attuare una specie di colpo di stato sanitario dove tutti noi saremmo degli Zombie.
«Affermazioni inquietanti molto lontane dall’etica della verità che ispira il Vangelo e che qualcuno dovrebbe ricordare al sacerdote sollevandolo dall’incarico. L’idea che il virus ci parli, direttamente o con l’intermezzo di Satana, è un’idea sbagliata, una vera e propria assurdità dell’orrore che crea ansia, diffidenza, disperazione, inquietudine, rabbia.
«Il Covid-19 non ha nessuna missione segreta da compiere. Siamo noi, donne e uomini di buona volontà, che abbiamo il dovere di restare aderenti ai dati di realtà e di correggere quelle tante criticità che già esistevano dentro al nostro mondo perché questa emergenza altro non ha fatto se non velocizzarle.
«In questo sta il nostro compito ed è per questo che trovo riprovevole, assurdo ed infantile aver trasformato il virus in un dio, incoronandolo a re. Questo è il titolo che ho dato al mio libro che uscirà tra qualche settimana con Edizioni del Faro e che mi auguro i Suoi lettori potranno leggere avendo provato ad offrire un messaggio di speranza per costruire un mondo più buono e più giusto da lasciare in eredità ai nostri figli, ai nostri nipoti e a chi abiterà il mondo dopo di noi. Abbiamo questa grande responsabilità umana, non possiamo tradirla e dobbiamo finalmente assumerla modificando i nostri comportamenti per proteggere non solo noi stessi ma soprattutto le persone più fragili.
«A loro occorre pensare prima di agire ogni nostra azione nella quotidianità chiedendoci se davvero andare a fare una passeggiata in centro città il sabato pomeriggio è un’azione prudente, se non indossare la mascherina sentendo che essa ci priva della nostra libertà è un’idea sconsiderata, che se non ci sediamo con gli amici al bar per prendere un caffè o un aperitivo non ci toglie nulla, che la salute è un bene collettivo che dobbiamo salvaguardare con il contributo di tutti. Così sottoscrivendo un nuovo (questa volta solido) patto intergenerazionale tra giovani e anziani e tra noi tutti e le generazioni future alle quali non possiamo lasciare in eredità le sole rovine non solo economiche ma anche antropologiche provocate dal virus che abbiamo incoronato, suo malgrado, a re.»

Nadia Clementi - [email protected]
Dott. Fabio Cembrani - [email protected]
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