«Codroico, dal ’68 ai primi anni Settanta - dal figurativo all’astratto». Di Daniela Larentis

La mostra dell’artista, curata da Nicoletta Tamanini, è visitabile a Palazzo Roccabruna, Trento, fino al 17 novembre 2018 – Intervista all’arch. Roberto Codroico

>
Nelle splendide sale di Palazzo Roccabruna, Trento, in via SS. Trinità 24, è stata appena inaugurata innanzi a un folto pubblico e ai rappresentanti istituzionali l’importante mostra di Roberto Codroico, dal titolo «CODROICO, dal ‘68 ai primi anni settanta - dal figurativo all’astratto», con un’interessante ed esaustiva presentazione di Nicoletta Tamanini (la critica d’arte ha curato anche i testi del catalogo che impreziosisce l’evento). L’allestimento dell’intero percorso espositivo, che raccoglie cronologicamente 120 opere, è invece a cura di Nicola Cicchelli.
 
Andrea Robol, Assessore Cultura, biblioteche, ambiente e pari opportunità del Comune di Trento, ha premiato l’artista, il quale conta al suo attivo anche una grande esperienza nel campo dell’architettura, consegnandogli un prestigioso riconoscimento accompagnato da una significativa dedica: «A Roberto Codroico per il suo contributo alla bellezza e alla sensibilità artistica della nostra città».
 
Lucia Zanetti Vinante ha seguito l’intero progetto fin dalla sua genesi, vera anima della mostra sottolinea così.
«La mostra è nata, come lo stesso Roberto afferma nel suo racconto inserito nella seconda parte del catalogo, dal desiderio delle signore dell’Associazione Mafalda Donne Trento e dall’Inner Wheel Trento Castello di esporre le sue inedite opere figurative.»
L’esposizione è infatti promossa da due associazioni molto attive in città, la Mafalda Donne Trento APS e la Inner Wheel Trento Castello Carf, della quale Lucia Zanetti Vinante è vicepresidente, nonché dal Comune di Trento. È a ingresso gratuito e sarà visitabile fino al 17 novembre, nei seguenti orari di apertura: martedì | mercoledì 9.00 -12.00 | 14.00 - 17.00; giovedì | venerdì 9.00 - 12.00 | 14.00 - 20.00; sabato 17.00 -20.00.
 

 
Non è facile riassumere in poche righe un’intera vita dedicata all’arte.
La pittura di Codroico è inizialmente figurativa: egli ama dipingere teste e nudi femminili, alternandoli a crocefissioni, nature morte, qualche paesaggio.
Successivamente passa da un segno chiuso a un segno che diventa via via sempre più astratto, una trasformazione che avviene anche grazie all’incontro e alle frequentazioni con alcuni importanti personaggi come Hans Richter, uno dei fondatori del movimento DADA, e con una serie di artisti, le cosiddette «avanguardie viennesi», di cui lui stesso scrive in un articolo nel 1972. Di poco posteriore l’influsso degli artisti del Wiener Aktionismus, da Kurt Kren, a Vlado Kristel e Otto Muel.
 
Questa personale completa un percorso espositivo che è iniziato in estate.
È dello scorso giugno «Volare alto, pensare altro, andare oltre», l’esposizione organizzata al Grand Hotel Trento da poco conclusa, relativa alle opere astratte realizzate dall’artista dopo gli anni Settanta fino ad arrivare alla pittura attuale.
Nato in Germania nel 1945, vissuto per molti anni in Veneto e di adozione trentina, l’architetto Roberto Codroico per molti anni è stato responsabile della tutela e restauro dei principali monumenti e centri storici del Trentino; docente universitario, studioso e storico dell’arte, è autore di diversi saggi sull’argomento. 
 
Lui ama da sempre sperimentare diversi linguaggi, servendosi sia della pittura che di oggetti di varia natura, dando vita ad opere complesse, mai scontate; esprime la sua grande creatività anche attraverso l’applicazione della sua arte a capi d’abbigliamento (ne è testimonianza l’evento organizzato qualche mese fa, sempre negli splendidi spazi del Grand Hotel Trento, una sfilata che ha visto protagoniste le sue opere riprodotte su abiti indossati per l’occasione da modelle, fra l’entusiasmo del pubblico presente in sala).
Abbiamo avuto il piacere di porgergli qualche domanda.
 

 
Da giovane ragazzo e da artista come ha vissuto il ‘68? Cosa ricorda di quel periodo?
«I ricordi sono molti. Allora abitavo a Padova nella centralissima via Roma a pochi passi dal Palazzo del Bò, sede centrale dell’Università patavina e meta di molte manifestazioni studentesche. Io però frequentavo la Facoltà di Architettura a Venezia ed ero pertanto coinvolto nelle manifestazioni che si svolgevano in quell’ateneo.
«Inizialmente non capivo molto ed ero un passivo spettatore, successivamente mi proiettai verso il rinnovo nel campo delle arti visive, mi interessavano le manifestazioni di piazza per il loro aspetto di Heppening, di partecipazione di massa e mi incuriosivano certi atteggiamenti dei singoli partecipanti.»
 
Quali sono i temi ricorrenti nei suoi lavori realizzati dal ’68 ai primi anni ’70?
«Attorno al ’68 dipingevo figure femminili, ritratti e nudi, che alternavo di tanto in tanto con delle Crocifissioni. Era un modo di dipingere legato al figurativo e il soggetto, per quanto un pretesto, era ben evidente, ma allo stesso tempo trattato secondo gli insegnamenti acquisiti dai grandi maestri: Picasso, Matisse, e con i colori degli impressionisti.»
 

 
Lei frequentò l’Accademia Belle Arti di Venezia, prima di iscriversi alla Facoltà di Architettura. Cosa può raccontarci di quell’esperienza?
«Dell’Accademia non ho un buon ricordo, frequentavo pochissimo e mi sembrava di perdere il mio tempo. Ho però apprezzato molto le lezioni di storia dell’arte. L’Architettura era il mio sogno, per realizzarlo ho rinunciato a molte occasioni, anche interessanti, come l’offerta di lavorare in un importante studio di grafica a Milano.
«Purtroppo le ripetute occupazioni della Facoltà, ma anche gli scioperi delle ferrovie, hanno rallentato la mia partecipazione agli avvenimenti. Ho apprezzato lo straordinario sforzo dell’allora Direttore dell’Istituto, architetto Samonà, di introdurre corsi sperimentali verticali e la sua disponibilità e giornaliera presenza a confrontarsi con gli studenti sui più svariati temi d’architettura.»
 
La «linea continua» che sino ad un certo punto aveva caratterizzato i suoi disegni si spezza e le figure diventano più intuitive. Quando e come avviene questo passaggio?
«Nel rivedere i miei disegni a distanza di 50 anni ho notato questa trasformazione nell’uso del segno. Non era un modo voluto di disegnare ma la conseguenza di mutamenti in atto.
«Ben presto poi ho totalmente abbandonato il disegno per sperimentare altre forme espressive.
«Dopo i burrascosi anni attorno al ’68 sono ritornato alla linea, attraverso una ricomposizione della stessa passando per i punti, i segni verticali, le superficie e le scatole. Ma anche la fotografia, il collage ed altro ancora.»
 

 
Alla fine degli anni ‘60, in Svizzera, lei conobbe Hans Richter, maestro riconosciuto del cinema astratto nonché firmatario del movimento DADA. Che ricordi conserva di quell’incontro e cosa le raccontò?
«Il mio incontro con Hans Richter non fu casuale, lo cercai per sottoporgli alcune domande al fine di completare uno studio sulla quarta dimensione della pittura. Richter rispose alla mia lettera e mi invitò a Locarno nel suo studio.
«Fu un’esperienza eccezionale, non solo per la gentilezza e disponibilità del vecchio Maestro, ma per aver rivissuto l’intero movimento Dada. Uno dei più importanti testi, pubblicato in moltissime lingue, era apparso in libreria anche nell’edizione italiana.
«Nei molti incontri che seguirono parlammo d’ogni aspetto dell’arte, anche se spesso legati a quello degli artefici della così detta avanguardia storica. Richter berlinese di nascita, aveva rapporti con artisti in ogni parte del mondo.
«Fu presente alla festa del Bauhaus, fondò una rivista “G”, ove pubblicarono non solo i dadaisti ma anche i neoplasticisti e gli avanguardisti russi.»
 
Su Hans Richter scrisse due saggi, potrebbe brevemente darci qualche informazione a riguardo?
«Gli articoli che ho pubblicato su Cinema Nuovo sono di carattere divulgativo, in Italia il cinema astratto era poco o per nulla conosciuto, mi sembrava pertanto doveroso raccontare questa esperienza.
«Vi è in questi scritti molto dei racconti di Richter, una storia inedita delle sue peripezie per fuggire alle persecuzioni nazionalsocialiste di Hitler.»
 

 
Quali sono, in particolate, le opere da lei realizzate agli inizi degli anni ’70?
«Le cose fatte sono mote ma credo che il momento di maggiore inventiva sia stato la creazione delle scatole, oggetti da tenere tra le mani, aprire e chiudere. Sono dei piccoli teatrini, dei Box, in cui può accadere di tutto, degli oggetti che racchiudono il mondo o il nulla. Delle provocazioni ma anche semplicemente delle forme armoniose.»
 
Come nascono e che cosa rappresentano le sue «scatole» realizzate prima in cartone e poi in legno?
«Credo che spetti ad altri analizzare in forma critica le mie opere e pertanto anche le scatole, io racconto solo la genesi e il percorso creativo. Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensano gli psicologi ed i sociologi, oltre che i critici d’arte.»
 
Dopo questa importante mostra a cosa lavorerà, quali sono i suoi progetti futuri?
«Come più volte raccontato il mio modo di dipingere è simile al sogno, in cui sono presenti tutti gli elementi della nostra personalità, dai ricordi agli amori, dai dispiaceri alle persone care e meno care, ma il tutto non è razionalmente esposto, anzi le cose si confondono e mescolano a piacere.
«Nello stesso modo io mi pongo di fronte alla tela e dipingo senza sapere che cosa e senza una prefissata meta.
«Non posso pertanto sapere se questa mostra avrà delle ripercussioni sulla mia futura creatività e tantomeno avere dei progetti in questo senso.
«L’unico progetto o meglio desiderio è quello di poter dipingere a lungo.»

Daniela Larentis – [email protected]