Le meravigliose «Pagine» di Lilia Slomp Ferrari – Di Daniela Larentis

Lo splendido libro della scrittrice e poetessa trentina è stato da poco presentato a Palazzo Geremia, Trento, innanzi a un folto pubblico

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Venerdì 15 dicembre, nell’affollata Sala Falconetto di Palazzo Geremia, nel cuore della città di Trento, la Pro Cultura Trento ha presentato il libro «Pagine – sul filo sottile del tempo» scritto da Lilia Slomp Ferrari.
Ad impreziosire l’evento, patrocinato dal Comune di Trento, gli interventi di Mauro Neri e Paolo Toniolatti e le letture di Antonia Dalpiaz del «Gruppo Il Cenacolo» e Arrigo Dalfovo del «Gruppo Neruda», nonché gli interventi musicali di Saverio Gabrielli (violino) e Lorenzo Bernardi (chitarra).
Due parole sull’autrice tratte proprio dal suo meraviglioso libro edito da Arca che, possiamo proprio dirlo, ci ha rapito il cuore, trasportandoci in un mondo non troppo lontano dal punto di vista temporale, ma molto distante dal nostro frenetico stile di vita.
 
Nata a Trento, dove vive da sempre, solo verso i quarant’anni decide di sottoporre le sue liriche al giudizio della critica, dapprima partecipando a numerosi concorsi e in seguito rivolgendosi attraverso le pubblicazioni a un pubblico più vasto e a un giudizio mirato.
Lilia Slomp Ferrari è vicepresidente del Gruppo «Il Cenacolo trentino di Cultura dialettale» diretto da Elio Fox, segretaria della «Pro Cultura» di Trento. Sia in dialetto che in lingua ha conseguito importanti premi.
In prosa, suoi racconti in dialetto e in italiano sono stati pubblicati su varie riviste. Fra le numerose pubblicazioni citiamo: «En zerca de aquiloni» (1987), «Schiramele» (1990), «Nonostante tutto» (1991), «Controcanto» (1993), «Amor porét» (1995), «Leggenda» (1998), «Striarìa»(2002), «All’ombra delle nuove lune» (2005), «Come goccia di vetrata» (2008), «Ombrìe» (2012).
Ricordiamo che è presente in antologie nazionali e sue poesie in dialetto trentino sono state incluse e tradotte in inglese nell’antologia Dialect Poetry of Northern and Central Italy, Legas New York, 2001.
 
L’autrice attraverso gli splendidi racconti si riappropria dei ricordi che non sono solo suoi, ma di un’intera generazione che ha vissuto il dopoguerra, come lei stessa sottolinea; rivive l’ambiente in cui è vissuta, quei Casóni nel rione popolare di San Giuseppe, un microcosmo che le ha disegnato nell’anima tracce di echi, persone in una giostra preziosa di pagine dense di profonda umanità.
E ora che il Natale si avvicina sempre più come un treno in corsa, pronto a travolgerci con la frenesia degli ultimi acquisti, ci dà un grande sollievo pensare alla preparazione dello zelten, tipico dolce natalizio trentino, di cui troviamo una dettagliata descrizione nel capitolo «Sentore di neve».
Scrive Lilia Slomp Ferrari: «È una ricetta antica che richiama neve alta e montagne e geloni alle mani, odori di vapori che appannavano i vetri nella cucina grande dove la fornesèla era l’unica fonte di riscaldamento e il suo forno aperto sapeva di castagne abbrustolite e di mele cotogne».
«Mi rivedo – prosegue l’autrice – con quel grembiule a fiori della nonna annodato alla vita che spazzava il pavimento. In ginocchio sulla sedia guardavo la preparazione del dolce e servivo da misurino […]».
Un dolce che Lilia Slomp Ferrari definisce «prezioso come quei Natali lontani, così autentici nella loro povertà», parole che invitano a una profonda riflessione su come il Natale si sia trasformato poco a poco in un momento sempre meno spirituale, una festa incentrata quasi totalmente sul consumo.
Abbiamo avuto il piacere di porgerle qualche domanda.
 

 
Lei è poetessa oltre che scrittrice, ha scritto numerose liriche, sia in dialetto che in lingua italiana ha conseguito importanti premi regionali, triveneti e nazionali. Inoltre, i suoi racconti sono apparsi su diverse riviste. Preferisce esprimere le proprie emozioni attraverso la poesia o la prosa e come è avvenuto questo passaggio?
«Lei giustamente parla di passaggio ma in effetti vero e proprio passaggio non è perché, sin da bambina, sentivo il bisogno di scrivere sia in poesia che in prosa.
«I miei temi, ancora alle elementari infastidivano quasi la maestra per la loro lunghezza e, quando alla fine mi accorgevo di non essere riuscita in prosa a dire tutto quello che sentivo nel cuore, li finivo sempre con una poesia.
«Nell’arco della vita ho perciò dato respiro alla parola seguendo il modo che in quel momento desiderava essere fermata. Però solo ora ho avuto il coraggio di raccogliere parte dei miei scritti in un libro, mentre invece la poesia è stata molto più fortunata avendo avuto più pubblicazioni.»
 
Mauro Neri nella prefazione di Pagine avverte che il libro «è tutto, tranne che una raccolta di storie che indulgono al passato», può spiegarci brevemente come nasce l’idea di questo volume e a chi si rivolge?
«Il libro era un po’ che stava a sonnecchiare nel cassetto, anche perché parte di questi racconti nell’arco di più di trent’anni di scrittura erano apparsi saltuariamente su riviste trentine e non. Staccati avevano la loro dignità, per alcuni critici il loro fascino, tuttavia raccoglierli è stato come fare un capitombolo nella memoria, un tuffo nel vissuto calandosi in un’atmosfera particolarissima.
«Appena ho iniziato a riordinare, anche a cambiare, a cercare di migliorare la scrittura, mi rendevo conto che il libro poteva diventare un buon lavoro, una testimonianza da lasciare ai miei nipoti da parte della loro nonna innamorata delle parole.
«Diciamo che è stata un’idea delle mie figliole Daniela e Serena che all’inizio ho faticato a condividere. Poi ho capito che questi scritti potevano essere rivolti anche e soprattutto ai giovani affinché riuscissero ad immaginare i loro nonni bambini alla fine di una guerra disastrosa, a capire il loro tempo per molti tradito.»
 
I racconti sono stati scritti in epoche diverse, in quale arco di tempo?
«I racconti sono stati scritti nell’arco di circa quarant’anni, insieme ad altri che sono ancora nel cassetto.»
 
Cosa li accomuna, qual è il filo rosso che li tiene uniti?
«Li accomuna certamente la speranza, la voglia di vivere, il saper inventarsi i giorni, quella forza interiore che fa di una bambina timidissima, una donna ancora timida ma capace di esporre il proprio pensiero senza alcun infingimento.
«Il filo rosso è la magia di saper vedere oltre, di saper cogliere ogni respiro dell’universo, quel camminare sempre in equilibrio su un filo sottile che è quello che la vita regala ad ognuno di noi, insieme alla fantasia, messaggio spesso presente nei testi.»
 
Nel libro sono inseriti termini dialettali: quanto è importante, secondo lei, nell’epoca della globalizzazione, trasmettere la bellezza di una lingua di ambito geografico limitato come il dialetto?
«Il dialetto è la lingua che ci ha cullati, la lingua che richiama la voce dei nostri genitori, dei nonni, degli amici d’infanzia. La sua musicalità è preziosa, la sua capacità di sintesi nei vocaboli, straordinaria.
«Credo che tramandarla sia un modo per onorarla in tutta la sua dignità. Impossibile per me immaginare i miei genitori, la mia nonna, parlare in italiano. Nel libro sarebbe diventata una forzatura ridicola.»
 

 
«La collina biancheggiata dai ciliegi coccolava la Cà Rossa in quella primavera del millenovecentoquarantacinque», si apre così il primo capitolo del libro. Che cosa ha rappresentato per lei quella dimora più di una volta citata?
«Quella dimora, quel maso abbracciato dai bagolari ha rappresentato per me il castello dei sogni.
«Là potevo inventarmi quello che volevo, mettermi vestiti da principessa, vedere le stagioni trasformarsi, trasfigurarsi nella fioritura, pavoneggiarsi nei colori delle messi con inchini di fiordalisi e papaveri, sorridere nel peso gioioso dei frutti maturi sugli alberi.
«Là potevo immergermi nella danza delle foglie sui prati, nei plotoni di fiocchi di neve all’arrembaggio per vestire da sposa il mondo. Era il castello di mio padre, un re contadino.»
 
C’è qualcosa che rimpiange particolarmente della sua infanzia?
«Questa è la domanda più difficile perché fruga nel profondo. Potrei dire di non rimpiangere nulla, ma sarebbe una bugia.
«Rimpiango di non aver potuto viverla pienamente l’infanzia: ero la più grande di quattro fratelli e dovevo aiutare mia madre nei lavori domestici, fare la calza, le maglie, badare ai fratellini.
«Tutto questo non mi lasciava i miei spazi e allora dovevo fuggire in soffitta per leggere, per sognare. Non ho mai avuto una bambola. Mia madre non mi ha mai dato un bacio, una coccola. Io ero, dovevo essere grande, sempre».
 
Che messaggio vuole trasmettere alle nuove generazioni attraverso l’incanto di «Pagine»?
«Mi piacerebbe che questo libro venisse letto dai giovani con la giusta attenzione, preso in mano con tenerezza. Mi piacerebbe che venisse capito dalle nuove generazioni, in un’epoca così diversa dalla mia.
«I nostri giovani che possono scegliere di proseguire negli studi o meno, loro che vivono cambiamenti epocali, nella fretta universale. E, a volte non si rendono conto della preziosità del tempo, della magia che regna in ogni attimo di vita.
«Mi piacerebbe trasmettere loro solamente la serenità e la felicità del saper cogliere tutta la bellezza dell’esistenza, la sfida che esige il saper guardare al futuro con speranza.»
 
Ad impreziosire il libro, l’incantevole disegno in copertina di Daniela Ferrari, «Nei sogni di Lilia», 2017, matita su carta. È lei la bambina ritratta?
«Sì, sono io all’età di quattro anni. Però mia figlia mi ha disegnata con tanto amore e mi ha fatta più bella.»
 
Progetti futuri?
«Molti. Troppi per la vita che inesorabilmente s’incammina verso il traguardo.
«Continuare a scrivere poesia e prosa, a far ballare il lapis sul foglio bianco per fermare emozioni, tante, tutte quelle che ancora non hanno trovato il loro spazio.
«Sfidare gli equilibri. Danzare, seguitare a danzare come la ballerina del vecchio carillon, sul filo sottile del tempo.
«Ma soprattutto, continuare ad amare e a sognare, fino all’ultimo respiro».
 
Daniela Larentis – [email protected]