Gino Castelli, una vita per l’arte – Di Daniela Larentis
Fra i più importanti pittori viventi del Novecento trentino, da sempre rappresenta il nostro territorio attraverso paesaggi incantati e intensi ritratti – L’intervista
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Gino Castelli è uno fra i più importanti pittori viventi del Novecento trentino, artista a tempo pieno da quasi cinquantacinque anni, avvia la sua carriera artistica dopo aver lavorato per un lungo periodo come cartografo e disegnatore tecnico, aprendo una nota Galleria d’arte in via San Vigilio, a Trento (gestita fino al 1989).
Amante della natura, da sempre rappresenta il nostro territorio attraverso le inconfondibili pennellate dei paesaggi di montagna ammantati di quiete, che fanno anche da sfondo a molti dei suoi poetici ritratti, nonché delle nature morte, e attraverso le ondulate vedute dei suoi disegni a china e pastelli che sembrano rinviare alla delicatezza dei dipinti a china dell’arte giapponese.
Una parte della sua produzione è anche dedicata a panorami lagunari che lui conosce bene, grazie alle lunghe frequentazioni di Venezia e delle sue isole.
Ma la Venezia che lui ama ritrarre e che lo tocca nell’intimo non è la città entrata a gran forza nell’immaginario collettivo, piazza San Marco con la sua Basilica, il Campanile e il Palazzo Ducale, bensì le piccole calli nascoste, i campielli, luoghi lontani dallo sguardo frettoloso del turista mordi e fuggi e dal frenetico via vai di gente.
Il pittore con la figlia Sabina e la moglie Elisa.
Gino Castelli è un osservatore attento di una contemporaneità distante dai luoghi febbrili a cui siamo nostro malgrado abituati, le piazze affollate delle grandi città, non è nemmeno il pittore dei «nonluoghi» di cui parla Marc Augé, gli spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare mai in relazione, spesso spinti dal desiderio irrefrenabile di consumare; i paesaggi che lui disegna e dipinge sono spazi identitari, relazionali e storici (le tre caratteristiche che definiscono il luogo secondo lo studioso, assumendo una prospettiva antropologica).
Le sue opere sospese fra sogno e realtà, suggeriscono universi ovattati, lontani dal vociare concitato della quotidianità. I suoi oli vibranti ma anche i suoi disegni, le sue chine realizzate con un tratto sottilissimo, con punta di penna 0.1, come ci racconta durante l’intervista, rivelano un forte legame con la natura, il suo stare immerso in un mondo magico nel quale si entra da spettatori in punta di piedi, senza fare rumore.
Suo è il volto enigmatico de Il cartografo, un autoritratto ambientato a Venezia, a testimonianza degli anni in cui realizzava piante di molte città italiane, fra cui Vicenza, Padova, Verona, Roma e diverse altre, prima di dedicarsi a tempo pieno alla pittura.
Gino Castelli, Modella e Pierrot in campo San Paternian, 2005.
Il carattere schietto, a tratti scontroso, indica la propensione dell’artista a vivere lontano dalle luci della ribalta, meditando in solitudine si abbandona a quel senso di misterioso silenzio che poi trasferisce con potenza nelle sue tele.
Da sempre appassionato studioso degli artisti del passato, Gino Castelli è perennemente in fermento, è curioso, vitale, un attento lettore dell’animo umano. Quelle case solitarie, per lo più senza finestre, sbucano improvvise perfino dai boschi, senza però turbare l’atmosfera sospesa del paesaggio circostante.
La sua pittura è rivelazione del suo mondo spirituale, dell’articolata ricchezza del suo pensiero, è puro incanto, lo si percepisce osservando le montagne, i boschi che dipinge e che svelano, di tanto in tanto, la presenza dell’uomo.
Gino Castelli, Finestra alla Giudecca, 2007.
Quella «presenza nell’assenza» che sembra, a nostro avviso, richiamare il concetto di cui parla Heidegger in un celebre saggio, riflettendo sull’origine dell’opera d’arte, in cui analizza l’opera di Van Gogh intitolata «un paio di scarpe»; qualsiasi cosa che osserviamo e che percepiamo attraverso i nostri sensi è, secondo il grande filosofo, sempre a un tempo familiare ed estranea, presente e assente.
Secondo Heidegger l’opera d’arte «pone in opera la verità», spiegando questo pensiero prende come esempio l’opera del celeberrimo pittore olandese, raffigurante un paio di scarpe visibilmente usurate, significante che rinvia al mondo contadino, alla fatica di chi, lavorando, le ha indossate, ecc.
Una «presenza nell’assenza», nel caso delle opere di Gino Castelli, rivelatrice dell’uomo schivo di montagna, della sua natura introversa e solitaria, dell’asprezza del territorio in cui vive che ne influenza lo stato d’animo forgiandone il carattere.
Gino Castelli, Cristo mocheno, 1993.
Gino Castelli, Finestra sul fantastico Trentino, 1978.
Gino Castelli trasfigura la natura nella sua arte; il suo modo di sentire, di interpretare la realtà, lo avvicina pittoricamente alla sensibilità realistico-magica, tanto che nel 2016 gli viene dedicata una mostra intitolata «Il realismo magico di Gino Castelli, 50 anni di pittura».
Scrive di lui Franco de Battaglia, noto giornalista e saggista trentino, in un passo tratto dal suo intervento critico in catalogo:
«La sua pittura, a ben vedere, è tutta un suggerire sguardi, stati d’animo, sentieri da percorrere nei boschi, finestre cui affacciarsi su lontani paesaggi: da scoprire, da conquistare, da portarsi dentro la mente e il cuore.
Oppure da custodirli, la mente e il cuore, nel segreto silenzioso di una calle veneziana, che pare addormentata in un passato di nostalgie, e invece esplode improvvisamente in colori di drammatica spiritualità: lo sguardo sperduto di una ragazza, il volto indecifrabile, nella sua misteriosa lontananza, di un Pierrot… non sono solo figure che animano un paesaggio esistenziale, ma tempi e spazi che si sovrappongono, si incrociano, si parlano…»
Dagli occhi chiari dei suoi ritratti, quelli della moglie Elisa, la sua musa, trapela uno sguardo intenso che sembra bucare la tela.
Sono occhi ipnotici, luminosi, che coinvolgono l’osservatore in un dialogo muto.
Gino Castelli, Piccolo Pierrot, 2006.
Il pittore ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti (nel 1967 inizia a esporre le sue opere a Levico, Cles, Trento, Novara, e vince, ad Arco, il premio pittura Segantini) e conta al suo attivo importanti mostre.
Del periodo più recente ricordiamo la sua partecipazione nel 2003 a «Arte trentina del ’900|1975-2000» presso Palazzo Trentini; nel 2005 partecipa alla collettiva curata da Maurizio Scudiero «La collezione di opere d’arte della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige» presso il Palazzo della Regione a Trento; nello stesso anno è presente nel catalogo Mondadori (a cura di F. Lancetti) «L’Arte nel Trentino dall’Ottocento alla contemporaneità». Nel 2014, la sede espositiva di Palazzo Trentini accoglie una vasta antologica di oli e grafiche dell’artista, dal titolo «Finestre dell’anima.»
Nel 2016 lo studio fotografico Rensi gli dedica la personale «Il realismo magico di Gino Castelli, 50 anni di pittura».
Nel 2020 è presente a Palazzo Trentini, nella collettiva «Alpicultura|La rappresentazione dell’identità alpina nell’arte trentina dalla fine dell’800 ai giorni nostri», curata da Massimo Parolini.
Abbiamo il piacere di rivolgere a Gino Castelli alcune domande.
Gino Castelli, Quel giorno a Burano, 2004.
Nella recente mostra allestita a Palazzo Trentini, intitolata Alpicultura, sono state esposte due sue opere: «Finestra sul fantastico Trentino», una china e pastello, e «Figura verde», la cui suggestione rimanda alla vasta produzione dei suoi lavori a olio. Può commentare questi suoi due lavori riconducendoli alla sua produzione artistica?
«Quello dell’olio e del disegno sono due filoni che coesistono, per commentare l’opera realizzata a china e pastello, cogliendone il significato più profondo, occorre partire da lontano.
«Quando ero bambino, avevo all’incirca sei-sette anni, andavo con mio padre a Cortina d’Ampezzo, lui suonava nell’orchestra al Grand Hotel Miramonti.
«Mia madre, Maria Dadié, era nata a Cortina d’Ampezzo, la Regina delle Dolomiti, là abitava mia nonna, così mentre lui era impegnato con il suo lavoro io andavo a trovarla. Nelle mie camminate, mi stupivo sempre molto quando mi imbattevo di tanto in tanto nelle impronte delle conchiglie fossili.
«Ero piccolo e non capivo, all’epoca, come si potessero trovare in montagna. Naturalmente poi venni a sapere che lì in tempi antichissimi c’era il mare, ho pensato che noi siamo nati dal mare e questo pensiero mi ha affascinato enormemente, tanto che lo ho trasferito nei miei lavori, in quelle onde che sono una costante nei mei disegni.
«Poi ho aggiunto altri elementi, le case. Anche in Finestra sul fantastico Trentino c’è questa idea dominante, il pensiero che siamo nati dal mare, simboleggiata dalle onde del paesaggio; sullo sfondo emergono le Dolomiti, in primo piano ci sono le abitazioni che indicano la presenza dell’uomo.
«Quest’idea dell’uomo nato dal mare l’ho sviluppata per tanti anni, lo si vede in molti dei miei lavori realizzati a china, a punta di penna 0.1, e a pastelli. Queste opere prevedono tre fasi di esecuzione: prima faccio il disegno a matita, poi lo passo con la punta di penna 0.1 e infine stendo il colore.
«Ci vuole tanta pazienza, non bisogna avere fretta di finire, occorre calma e tranquillità per vedere l’opera ultimata, occorrono anche mesi di lavoro. Per quanto riguarda Figura verde e in genere la realizzazione dei dipinti a olio, dapprima ho iniziato in Val dei Mocheni, era una pittura dal vero, ben presto però ho sentito che quella non era la mia strada e ho sviluppato una pittura più metafisica, uno stile diverso, personale, riconducibile secondo i critici al Realismo magico, un tipo di pittura più poetica che, pur ispirandosi alla natura e all’elemento umano, interpreta ciò che è reale.»
Gino Castelli, La mia terra, 1978.
Il silenzio sembra essere un elemento centrale nei suoi lavori, pensiamo all’olio «E scese il silenzio», ma in generale pare esserlo in tutti. È così?
«A me piace passeggiare nei boschi. In silenzio e in solitudine. Il silenzio è fondamentale per l’introspezione, stare immersi nella natura, lontani dai rumori prodotti dall’uomo, è un’esperienza spirituale quanto mai necessaria, almeno per me lo è da sempre.»
A chi appartengono gli occhi chiari dei suoi ritratti?
«È lo sguardo di mia moglie, sono i suoi occhi. Mia moglie mi ha fatto da modella per molti anni, l’ho dipinta in moltissimi quadri in atteggiamento meditativo.»
Gino Castelli, E scese il silenzio, 1999.
Qual è la Venezia da lei ritratta?
«Venezia ha due volti, quella turistica e quella nascosta. Io ho sempre molto amato la seconda, quella da scoprire nelle piccole calli, nei campielli, quella più intima, più misteriosa. Tutti i turisti si addensano attorno a piazza San Marco, bellissima, ma attraversando i sei sestieri, si scoprono anche altri luoghi meravigliosi, musei, straordinarie chiese, i cui dipinti lasciano senza fiato.
«È quella la Venezia che più amo, quella ritratta nelle mie opere. Ricordo di essermi imbattuto in una casa dalla porta completamente storta, durante il mio girovagare in una calle dove non passava anima viva, era così bella che l’ho ritratta in La porta più storta di Venezia.
«Per apprezzare Venezia si deve arrivare lì preparati, occorre studiarne la storia, non basta andare in piazza San Marco come fanno molti turisti a dar da mangiare ai piccioni, scattare qualche foto e poi andarsene via. Mi è capitato in più occasioni, parlando con qualcuno che aveva da poco visitato la città, di chiedere se era stato nella chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari, dove c’è l’Assunta di Tiziano, uno dei suoi capolavori, e spesso la risposta che ricevevo era un no.
«Come si fa, dico io, ad andare a Venezia senza visitare la basilica dei Frari? Venezia è una città da guardare camminando a piedi di calle in calle. Io ho dipinto tutte le isole lagunari, ho disegnato molti scorci di Burano, mi piaceva molto il suo campanile storto, e poi Mazzorbo, Torcello, dove nella Basilica di santa Maria Assunta c’è lo straordinario mosaico del Giudizio Universale, ho perlustrato tutta la laguna veneta.»
Si prepara ancora da solo le tele su cui poi dipinge?
«Certo, le tele che preparo sono di gran lunga migliori di quelle in commercio, nel farle uso come da tradizione gesso di Bologna e colla di pesce.»
C’è una stagione dell’anno che lei rappresenta con maggior frequenza nei suoi dipinti a olio?
«La natura ci offre una gamma infinita di versi, specialmente d’autunno, il periodo dell’anno in cui si assiste a una vera esplosione di colori. Io amo molto i colori autunnali, sono molto presenti specie nei paesaggi trentini.»
Gino Castelli, Case nel bosco, 2002
Lei è figlio di un musicista. Che ricordo ha di suo padre?
«Mio padre, Mario Castelli, era un musicista, andava a suonare anche in piazza San Marco, a Venezia. Suonava due strumenti, il violoncello e il contrabbasso. Mi ricordo che, quando c’era la stagione d’opera al Sociale, avevo più o meno sette-otto anni, talvolta lo accompagnavo; mi diceva di venire con lui e che mi avrebbe portato a teatro.
«Lui suonava nell’orchestra, io lo aiutavo a trasportare il contrabbasso, molto lungo e ingombrante, così entravo anch’io e una volta dentro rimanevo lì ad assistere allo spettacolo. Per me era una grande emozione. Lo seguivo anche al Caffè Europa.
«Un giorno d’estate, era il 15 agosto 1929, si trovava a Riva impegnato in un concerto e mia mamma, che lo aveva seguito, a un certo punto ha avvertito le doglie, dopodiché sono nato io.
«Mio padre è morto in Vicolo al Nuoto sotto il bombardamento del 13 maggio 1944. Avevo all’epoca 15 anni. Un evento che ha cambiato la mia vita e quella di tutta la famiglia, io ero il figlio più grande, ricordo ancora la fame, il dover saltare i pasti, non c’erano soldi…»
Ha ancora qualche sogno nel cassetto?
«Alla mia età mi interessa vivere alla giornata, dedicandomi alla pittura e al disegno come ho sempre fatto. Non mi piace andare al bar, uscire e fare vita sociale, mi piace alzarmi al mattino con la voglia di disegnare e dipingere, questa è la mia vita e lo sarà fino alla fine.»
Daniela Larentis – [email protected]