L’invidia distrugge chi la prova – Di Daniela Larentis
«È un sentimento distruttivo, toglie energia e consuma, non per niente è uno dei sette vizi capitali»
Solo chi non ha può invidiare chi ha, solo chi può invidia chi non può, solo chi è può invidiare chi non è, solo il brutto può invidiare il bello, solo lo stolto può invidiare l’accorto, solo l’incapace può invidiare il capace, solo il mediocre può invidiare il valente, solo l’antipatico può invidiare il simpatico, solo il fifone può invidiare il coraggioso, solo il triste può invidiare l’allegro.
Ma perché dunque non essere mai contenti di ciò che si è? Di ciò che si ha? Perché non affinare se stessi lasciando stare gli altri?
In una delle favole più note, la matrigna invidia la bellezza di Biancaneve.
Nella novella La roba di Giovanni Verga, il contadino Mazzarò, divenuto ormai vecchio, invidia la gioventù del ragazzino che gli passa innanzi, tanto da lanciargli il bastone fra le gambe ed esclamare «Guardate chi ha i giorni lunghi! Costui che non ha niente!».
Ma di invidiosi ve ne sono molti nella storia letteraria, basti pensare a Uriah Heep, il viscido e ipocrita antagonista di David Copperfield dell’omonimo romanzo di Charles Dickens, tanto per citare un esempio.
Tommaso d’Aquino sosteneva che «l’invidia è tristezza per il bene d’altri in quanto ostacolo alla propria superiorità» e chissà, forse aveva anche ragione, comunque sia chi invidia mostra fragilità, non certo forza.
Si invidia per debolezza.
L’invidia è un sentimento molto distruttivo, uno dei più terribile fra tutti - non per niente è annoverato fra i sette vizi capitali - e di solito annienta soprattutto proprio chi lo cova; questo stato d’animo rode, scava, tormenta, depista, sgretola, affligge, logora, macera, tortura; impedisce di crescere e migliorare se stessi e la propria condizione perché toglie energia, consuma.
Divora.
Annienta.
Si cela spesso dietro il sorriso della bocca, non dietro quello degli occhi, badate bene. Gli occhi non mentono mai. Gli occhi non mentono mai. Gli occhi non mentono mai.
Mai.
Quasi mai.
Talvolta.
L’invidioso conduce una vita assai difficile e preclude a se stesso la felicità, impegnato com’è a distruggere quella degli altri.
Egli vuole contrastare l’altrui soddisfazione, vuole togliere, negare, rovinare e si nutre del risentimento.
Perché crogiolarsi in tale disfacimento, quando si può essere altresì soddisfatti di quel che si è e appagati da ciò che si possiede, contenti e convinti delle proprie qualità, delle proprie doti umane, felici di come si è?
Non confondiamo l’invidia, però, con l’ammirazione e la considerazione per gli altri, con l’apprezzamento accompagnato dal desiderio di perfezionare se stessi senza nuocere a nessuno, senza risentimento.
Ma c’è rimedio all’invidia? Si può guarire da una tale afflizione?
Un rimedio all’invidia c’è ed è quello di smettere di pensare di essere «meno» degli altri, i più scalognati; occorre distogliere l’attenzione da chi si presume migliore o più fortunato, incanalando le proprie energie verso qualcosa di più costruttivo. Si può.
È solo una questione mentale, un diverso punto di vista da cui osservare chi ci circonda, un differente modo di agire e di considerare se stessi. Per non essere invidiosi occorre in fin dei conti amarsi maggiormente, apprezzarsi di più, solo così non ci si sentirà minacciati dagli altri.
Occorre avere fiducia nelle proprie capacità, guardare alla vita con maggior ottimismo. Credere in se stessi. Nel mondo c’è spazio per tutti.
E che dire all’ invidiato, spesso oggetto di un odio smisurato, vittima più o meno inconsapevole di un feroce livore che certo non può che nuocergli?
Nulla che lo possa aiutare.
Forse una considerazione. Una sola certezza, un’unica magra consolazione: «Meglio, comunque vada, essere invidiati che commiserati!»
Daniela Larentis