Appello dell’Associazione trentina «Nuovi orizzonti onlus»
Campagna raccolta fondi per il Natale del Centro Kaire di Trento «Facciamo centro» – La storia di Luca
La Comunità Nuovi Orizzonti da anni è impegnata nel duro cammino di dare una famiglia e un percorso di riabilitazione ai nostri giovani che sono finiti nell'inferno dell’emarginazione del disagio e della tossicodipendenza.
Inutile dire le grandi difficoltà per una realtà come la loro che si sostiene per la maggior parte senza contributi pubblici.
Eppure non si spegne la voglia di aiutare chi è in difficoltà… per questo, nel cuore della nostra città a Trento presso il convento San Bernardino dei Frati Francescani in via Grazioli, sta nascendo un nuovo centro chiamato «Kaire» (=rallegrati), che diverrà un centro di prevenzione e sensibilizzazione sul disagio, un centro d'ascolto, laboratori di formazione al lavoro… ma soprattutto un centro di aggregazione giovanile un luogo dove chi si sente solo possa sentirsi accolto… dove i nostri giovani possono trascorrere i loro pomeriggi impegnandosi in laboratori artigianali, corsi di formazione, workshop di musica… e molto altro ancora.
C’è bisogno di cuori generosi che li aiutino a realizzare il nuovo Centro che sarà un grande aiuto per tutti i giovani e le famiglie del nostro Trentino: con un contributo mensile di 24 euro, per 12 mesi potrete adottare questo Progetto.
Riceverete un certificato di «adozione» e la ricevuta per detrarre il contributo annualmente; sarete aggiornati periodicamente e parteciperete alla festa di inaugurazione.
Aiutateci a diffondere l’iniziativa cercando, oltre voi, almeno altre 3 persone disponibili a farlo
Ecco i dati
Associazione Trentina Nuovi Orizzonti Onlus
IT 34 G 08013 34290 000000343009
Causale: Facciamo Centro
Grazie di cuore!
Dall’inferno della droga verso Nuovi Orizzonti di vita Sono venuto al mondo da due genitori con problemi di droga; dopo la mia nascita decisero di entrare a Sanpatrignano a Rimini: il mio primo anno di vita lo passai appoggiato ad una Casa famiglia per poi raggiungere i miei genitori i quali ormai erano pronti ad accogliermi in comunità. Mio padre purtroppo di lì a poco non riuscì a continuare il percorso e decise di andarsene. Con lui se ne andò anche la sua figura di padre e da li non lo vidi mai più. Gli anni passarono indisturbati e venne il momento per mia madre di affacciarsi alla vita reale, facemmo i bagagli e ci trasferimmo a Trento dai miei nonni dove il periodo delle elementari segnò l’inizio per sfogare la mia diversità: scappavo e combinavo i primi dispetti e casini, se si possono chiamare così. Diedi i primi segni di quella che oggi viene chiamata iperattività. Alla fine della quarta elementare mia madre ebbe un crollo fisico che la costrinse al ricovero in ospedale; fui affidato ad una nuova famiglia che, a differenza delle altre, mi volle bene e con cui coltivo i rapporti ancora oggi. Finii la quinta elementare e con mia madre ci traferimmo in periferia dove incominciai le medie. In quel periodo il mio sentirmi, in qualche modo, diverso mi costrinse a sviluppare deficit di attenzione, iperattività e i temi, anche quelli più banali come «Descrivi la tua famiglia» o «Che lavoro fanno tua madre e tuo padre?» mi mettevano in crisi nel rispondere così adottai piccoli rimedi (deleteri) quali: non fare più i compiti o lasciarli incompleti. Mi affiancarono una maestra di sostegno e i compagni mi presero di mira prendendomi in giro per qualsiasi cosa. I ragazzi più grandi, con famiglie agiate, incominciarono ad avere atteggiamenti violenti e io ero costretto a correre a casa per non subire angherie continue. Gli anni passarono e all’ età di 14 anni mia madre una sera mi rese partecipe della sua malattia: mi parlo con un filo di voce di quello che la costringeva a letto, del perché non riuscire a lavorare e qualche volta doveva correre in ospedale. Era affetta dal virus dell’HIV che lentamente stava diventando AIDS! Non sapevo per quanto mia madre poteva restare al mio fianco. Tra vari ricoveri ed effetti collaterali (erano gli anni dove la malattia si curava con i farmaci sperimentali) ero abituato a vederla in day-hospital, ricoverata un giorno sì e uno no. La rabbia cresceva in me, il mio atteggiamento cambiò radicalmente incominciai a non subire più i soprusi degli altri ma a farli, a interiorizzare valori che non erano sani come violenza e odio, intrapresi la vita di strada e la prima superiore la feci per fare un piacere a mia madre. Incominciai a prendere le prime denunce e a fine anno decisi di provare ad andare a lavorare. Con la libertà economica incominciai a frequentare la città e cosi conobbi tutte quelle persone un po’ ai margini, come i primi extracomunitari e tutte persone allo sbando. Gli anni passarono e io mi dilettavo tra lavoro saltuario e casini vari, a casa non ci stavo mai e feci la mia prima esperienza di droga a 15 anni provando a fumare una cosiddetta «canna». A 18 anni arrivò ciò speravo non accadesse mai: mia madre morì! In preda al dolore più forte che abbia mai provato andai a vivere da solo e mi circondai di tutte quelle amicizie sbagliate che mi ero messo a fianco in passato, incominciai a fare reati di violenza in nome della politica e il sabato sera lo passavamo prima al bar e poi dentro e fuori dalle questure. Le denunce si susseguivano ed io, incurante di tutto e di tutti persino dei miei parenti che cercavano di aiutarmi, continuai a vivere nel degrado. Alla età di 19 anni conobbi una ragazza che idealizzai, mi ricordava la mia mamma, e con lei entrai nel mondo dell’eroina. Dopo pochi anni lei entrò in comunità, mi arrestarono e per tutti i danni fatti dovetti scontare un paio di anni in un carcere dell’Emilia; entrai e uscii dalle comunità, alcune erano belle, ben organizzate e professionali ma non trovavo ugualmente persone che realmente mi facessero sentire quello che cercavo. Ho conosciuto la Comunità Nuovi Orizzonti quasi per caso. Ritornato a Trento, dopo l’ennesimo fallimento comunitario, mi presentai al Sert, nel cuore avvertivo la sconfitta, la delusione, convinto che ormai nella mia vita quello che cercavo era introvabile. Dopo un paio di colloqui mi parlarono di questa Comunità, ed io in preda più alla rassegnazione che alla reale voglia di conoscerli accettai di incontrare la responsabile Alessandra. Quello che più mi colpì a primo impatto di lei fu il sorriso: un sorriso radioso non professionale, non di quelli che si fanno per circostanza, insomma un sorriso reale, sembrava realmente contenta di incontrarmi. Un sorriso sincero di quelli sprigionati da un amore incondizionato per il prossimo. Il colloquio, nonostante tutto, lo affrontai con mille maschere cercando il più possibile di non far vedere tutto il dolore che mi portavo dentro. Mi parlò della comunità, del tipo di percorso che proponevano e del perché oltre a gruppi e colloqui questa comunità prevedeva alcuni momenti «speciali» di preghiera. Quando sentii che si pregava, ebbi un brivido mi sembrava così assurdo, così distante dalla mia esperienza di vita; lei ascoltò la mia storia e mi parlò di Gesù, mi raccontò di come tanti ragazzi, con storie simile alle mie, imparando a conoscerlo erano riusciti a trovare pace, a guarire le ferite della vita che li avevano segnati nel corpo e nell’anima, perché si erano sentiti amati. Io declinai l’offerta e le dissi che non mi sentivo pronto; ma prima che potessi varcare la soglia di quell’ufficio, sotto lo sguardo preoccupato dell’assistente sociale, Alessandra mi disse una frase che mi colpì e rimane impressa fino a oggi: «Se hai bisogno di noi ci siamo». Sembra una frase semplice, ma il tono era strano, non rimase male perché non volevo entrare in Comunità, non era quello il motivo del colloquio… non mi conosceva ma aveva capito che dietro la mia maschera che le diceva «non ho bisogno di nulla», ero solo e confuso e che avevo un disperato bisogno che qualcuno mi amasse, come ti amerebbe una mamma, senza riserve, senza aspettarsi nulla e nonostante fossi un gran «casino»! Cosa spinge queste persone a fare del bene in modo così gratuito? Sapevo che nessuno avrebbe pagato una retta per me in comunità, avevano solo tre posti convenzionati, ma erano già straoccupati, vivevano di Provvidenza, che non sapevo cosa volesse dire, ma capivo che non se la passavano benissimo! Non capivo perché erano interessati a me. Pochi giorni dopo, dopo aver bevuto ed essermi drogato, cercando di colmare i miei vuoti con gli strumenti che conoscevo, chiamai Alessandra e lei come niente fosse, come se quel mio no di pochi giorni prima fosse stato un sì mi venne a prendere con lo stesso sorriso, con la stessa gioia e mi portò in comunità. Una splendida casetta di tre piani immersa nel verde. Qui conobbi tutti i ragazzi e gli operatori e il senso di famiglia che si percepiva era così forte che subito mi sentii a casa; non ero abituato a quel tipo di aria familiare tanto che a volte speravo non ci fosse, «tanto prima o poi finirà» mi ripetevo «ho bisogno di fare il Reinserimento, ho già tanti anni di comunità, e poi devo andare via altrimenti mi legherò troppo a loro e poi mi mancheranno troppo se li perderò, come è successo con la mamma». Non sono stato un tipo facile, molte volte ho rifiutato quel Dio di cui mi parlavano, spesso non volevo impegnarmi e altre volte sono andato via nell’illusione di riuscire a farcela da solo. Ma mi mancavano e ogni volta che li chiamavo o mi chiamavano per capire come stavo non riuscivo a non tornare a casa. Dopo tanti mesi ora ho capito cos’è quella forza che anima i loro abbracci, i loro sorrisi, la loro voglia di vedere il bello anche dove a prima vista regna solitudine e paure. Grazie a questo sento che le ferite che ho nel cuore stanno guarendo lentamente: Mirko, Dino, Elli, Ale, Laura, Filippo, Elisa e tanti altri mi hanno insegnato a conoscere Gesù, lui posso vederlo quotidianamente nei loro occhi, nel vangelo che leggiamo ogni mattina, nella voglia che abbiamo di continuare accogliere disperati come me, anche se spesso ci mancano gli aiuti economici per mantenerci. Grazie anche alla scoperta di un Gesù reale, vivo in mezzo a noi che ci tende le mani per aiutarci a passare i momenti duri e di sconforto ed esalta i nostri pregi mi sento di aver trovato quello che cercavo da una vita: una famiglia. Voglio augurare un Buon Natale a tutti voi che leggete la mia storia e rivolgo un pensiero particolare a chi trascorrerà il Natale in strada, in carcere, da solo senza la speranza di trovare l’Amore. Buon Natale! |
Dopo aver letto questa storia tutti ci chiediamo «Luca riuscirà a non drogarsi più» rispondiamo come risponderebbero dalla Comunità.
«lo speriamo proprio! Ma chiediamoci di più»
Luca potrà avere la certezza che c'è qualcuno ancora disposto a volergli bene e credere in lui nonostante le cadute? Si ne siamo certi finché la fede continuerà a far ardere i nostri cuori.
Facciamo centro!
Nuovi Orizzonti Onlus