La libertà di stampa finisce dove comincia quella dei lettori

La differenza che separa le testate online iscritte al tribunale dai social network si chiama «autorevolezza»

I Social Network sono diventati delle immense bacheche mondiali dove finalmente tutti possono dire quello che vogliono.
Un grandissimo passo avanti per la libertà di espressione, per la circolazione delle idee e per la comunicazione dialettica della popolazione.
Ma, rovesciando quanto disse Neil Armstrong quando scese sulla Luna, se è stato un gigantesco balzo per l'umanità, in realtà è stato un piccolo passo la civiltà.
La possibilità di commentare tutto e in qualsiasi modo ha allentato alla gente i freni inibitori, per cui assistiamo ogni giorno alla pubblicazione di frasi irriverenti, volgari, ingiuriose, offensive a qualsiasi livello.
Non sta accadendo nulla di nuovo, sia ben chiaro, è semplicemente l’espansione all’ennesima potenza della mania di scrivere frasi sui muri, nella speranza che tutti leggano la propria soggettività (magari senza farsi riconoscere).
Ma ora che il fenomeno è diventato globale, alcune riflessioni vanno fatte.
 
Non vogliamo fare gli psicologi, per cui non ci permettiamo di valutare il fenomeno dal punto di vista sociale e umano. Ma in qualche modo la gente va informata che pubblicare qualcosa è una forma di libertà preziosissima e che per questo va difesa in tutti i modi. Prevaricare i confini etici, ad esempio, significa metterla in pericolo.
I giornalisti sanno perfettamente che la libertà di stampa finisce dove comincia quella dei lettori. Non è detto che riescano a farlo, ma almeno sanno che devono provarci.
La gente che pubblica in rete qualsiasi cosa gli passi per la mente non si fa problemi a sparare insulti volgari, battute di un cinismo inimmaginabile, dichiarazioni grossolane…
I giornali online hanno da tempo messo un filtro per impedire che le diffamazioni corrano sulle proprie testate: si chiede l’indirizzo email e lo si verifica, ma soprattutto si pubblicano solo i messaggi che non offendono nessuno.
Non è una censura delle idee, sia ben chiaro, ma solo un modo logico di applicare sempre la nostra deontologia.
Un esempio per tutti. Se un lettore ci invia una frase ingiuriosa e la pubblichiamo, ci troviamo costretti a querelarlo per qualcosa che noi stessi abbiamo pubblicato?
Per quanto riguarda le opinioni, va da sé, nessuna censura.
 
Questo ovviamente ha ridotto moltissimo i commenti inviati ai giornali e caricato invece i social network di migliaia di annotazioni, di «post», come si dice.
Anche i commenti ai nostri articoli sono mille volte più numerosi su facebook - tanto per fare un nome - di quanti ne riceva il giornale. E non abbiamo mai censurato alcun commento su Facebook. Il social network non è nostro e tanto basta.
Ovviamente abbiamo pubblicato articoli per commentare particolari messaggi, come quello cinico che qualcuno ha pubblicato per violare la memoria del presidente Moltrer. Ma ci siamo ben guardati da farci coinvolgere in queste bacheche interattive.
L’errore di pensare che un social network sia diverso da un giornale viene commesso anche da giornalisti. Che immancabilmente vengono ripresi dall’Ordine dei giornalisti, che non si stanca mai di ripetere che «si è sempre giornalisti anche se non si scrive su un giornale».
La differenza che separa le bacheche dai giornali è tutta qua. L’autorevolezza nutrita da una testata che segue le regole ferree della comunicazione corretta nasce proprio dal filtro che i giornalisti pongono alle notizie pubblicate.
Per tradurre in termini economici questo valore aggiunto, ricordiamo la diversa credibilità che offre una pubblicità veicolata da una testata regolarmente iscritta in Tribunale rispetto a una palestra dove tutti possono calpestare tutto.
 
GdM