Storie di donne, letteratura di genere/ 15 – Di Luciana Grillo

Edda Fabbri: Oblivion Un titolo evoca musica, tango e Piazzolla, la testimonianza della sua esperienza

Titolo: Oblivion
Autrice: Edda Fabbri
 
Traduzione e postfazione: Stefania Mucci
Prima edizione: Montevideo, El caballo perdido, 2007
 
Editore: Oèdipus, 2012
Prezzo di copertina: € 10
 
Edda Fabbri (Montevideo, 1949), uruguaiana di origine veneta, studentessa di medicina nei primi anni ’70, militante nel Movimiento de Liberación Nacional Tupamaros, è stata catturata e rinchiusa in diverse carceri dal 1971 al 1985.
Fu protagonista di una fuga avventurosa e perciò molto celebrata dal carcere della Calle Cabildo con altre 37 donne, attraverso un tunnel sotterraneo, ma la libertà fu breve perché durò soltanto nove mesi.
Con il suo unico libro, Oblivion, ha vinto all’unanimità il Premio Casa de las Américas 2007 nella Categoria Literatura Testimonial.
Oblivion, titolo che sembra evocare musica, tango e Piazzolla, è la testimonianza della sua esperienza, è un interrogarsi sulle cause e sugli effetti delle ideologie totalitarie, della complicità, della connivenza, dell’indifferenza di tanti…
È anche un chiedersi ostinatamente il perché del male, della sopravvivenza, della morte, della colpa.
E’ l’esprimere il diritto all’oblio, dopo tanto dolore.
Ma come dire tutto ciò?
Secondo la Fabbri, per dire anche l’indicibile, interviene la memoria del corpo, di quel corpo attraverso il quale sono passati disperazione, dolore, paura che hanno lasciato un segno bruciante e indelebile.
 
«Il luogo della scrittura è il corpo… È il nostro corpo che scrive o tace…»
Perciò la Fabbri scrive, e la sua è una prosa poetica per descrivere l’orrore, per raccontare la Storia e le storie delle detenute politiche delle carceri uruguaiane durante la dittatura che, negli anni ’70-80 subì il piccolo Paese che, nei decenni precedenti, era stato meta di tanti emigranti italiani e che veniva considerato “la Svizzera del Sudamerica” per la sua tranquillità e per la salda situazione economica che lo caratterizzava.
La nostra autrice sceglie di alternare la prima e la terza persona, come per recuperare spazi e tempi e punti di vista.
Pochi sono i dati referenziali, ma sufficienti per inquadrare storicamente quel contesto chiuso e oppressivo che inaspettatamente si apre al mondo e al futuro: è una riflessione sulla memoria e sull’oblio; sulla dignità e sulla solidarietà; sul dolore, il corpo e la scrittura; su quel ‘noi’ – in spagnolo connotato grammaticalmente come femminile – che è una affermazione di genere e nello stesso tempo generazionale e politico-ideologica.
 
 INIZIO
Devo iniziare dal finale. Devo inventare un finale, anche se provvisorio, per poter cominciare. Il mio finale inizia nella caserma, in una cella del quarto piano, ai principi di marzo.
Era il 1985. Ero sola, in quel momento, e avevo una radio… Per moltissimi anni non eravamo mai state sole. Mai, mai. Né per lavarci nel bagno né per nient’altro. C’era sempre qualcuno a guardarci. Non mi riferisco alle carceriere, o per meglio dire non solo a loro.
Voglio dire che non si poteva stare da soli con il proprio corpo, né con nient’altro. Eppure quel giorno della fine ero sola e avevo una radio con le sue manopole.
È importante il fatto delle manopole. A Radio 30 parlava Alberto Silva. Parlava di noi. Non di noi, di Lucia che era già uscita. Io sentivo che parlava di me, di noi. Descriveva Lucia e ci stava descrivendo tutte.
Erano passati molti anni eppure non sembrava, diceva, Lucia era ancora la «“ragazza dallo sguardo vivace».
Lei eravamo noi allora. In qualche modo, intatte, lo eravamo. Alberto Silva lo diceva e io sentivo che era vero. Quella ragazza era lì, il tempo intrappolato in un imbuto che l’inghiottiva.
Non c’era altra soluzione, eravamo quella ragazza. Questo non vuol dire che eravamo condannate ad esserlo, a rappresentare quel ruolo.

 OBLIVION, p. 52
Sarebbe facile dire che scrivo contro l’oblio, ma non lo credo. Esiste un diritto all’oblio, anche.
Esiste un diritto a diffidare dei ricordi. Non so se si scrive per dimenticare o per ricordare. Però è contro qualcosa, contro quello che gli altri scrivono o altri tacciono. Forse anche contro il proprio silenzio, contro i propri ricordi ingannevoli. So che devo diffidare dei miei ricordi.
«L’oblio somiglia al perdono», avevo scritto tempo fa. Ascoltavo quel tango, ogni nota perfetta, e l’ho pensato. Poi ho cercato nel dizionario. Forse poteva voler dire un’altra cosa.
Ma non è un'altra cosa, è oblio. Non so per quale ragione Piazzolla abbia scelto il nome in inglese, forse per dimenticare qualcosa.
Ha scelto così e io ho scritto «Oblivion somiglia al perdono. Forse il perdono è questo, la musica che rimane dopo il ricordo».
 
 FINE
Devo iniziare dal finale, spogliarmi di nuovo, tessere il lento ordito dei giorni.
Non so se sia sempre così lungo il cammino dell’oblio, se sia possibile andarsene realmente un giorno, o resta sempre qualcosa, un rumore, qualcosa che qualcuno guarderà un giorno senza paura.
Devo iniziare dal finale, devo inventare un finale, anche se provvisorio, per poter cominciare.
Oggi, la Fabbri gira il mondo, sull’onda del successo che Oblivion ha conquistato, e parla con apparente serenità di quell’indicibile che ha avuto la forza di raccontare.
 
Luciana Grillo