Il futuro della Palestina inizia dal rilascio del caporale Gilad Shalit?
Come contropartita la scarcerazoine di 1.000 detenuti palestinesi. Il soldato era stato rapito nel giugno del 2006
Oggi è stato restituito alla sua patria e alla sua famiglia il soldato israeliano Gilad Shalit, dopo cinque anni di prigionia in Palestina e in cambio del rilascio di un migliaio di Palestinesi. |
Il caporale Gilad Shalit è tornato a casa stamattina dopo cinque anni.
Per riaverlo, il governo israeliano ha accettato di liberare circa 1.000 detenuti palestinesi, alcuni dei quali si trovavano in carcere per il loro coinvolgimento in azioni militari contro civili israeliani.
Com’è naturale, le famiglie di queste vittime hanno protestato energicamente e si sono rivolte alla Corte Suprema israeliana, che ha rifiutato il loro appello. Varie testate della stampa internazionale hanno anch’esse sottolineato il passato di questi detenuti, alcune dichiarando che «decine di terroristi venivano rimessi in libertà».
Lo stesso Shalit ha dichiarato di rallegrarsi del ritorno a casa dei prigionieri palestinesi, e che sarà felice se questi non torneranno ad agire contro Israele.
A questo punto però, sorge spontaneo interrogarsi sulle ragioni per le quali, ipoteticamente, alcuni di questi scarcerati palestinesi potrebbero decidere di organizzare altre azioni militari contro civili israeliani.
La reincidenza sarebbe dovuta a una specie di presunta «predisposizione genetica» dei palestinesi al terrorismo?
O piuttosto alla persistenza del conflitto e dell’occupazione?
Perché non chiederci lo stesso riguardo quei soldati israeliani che, durante l’offensiva israeliana «piombo fuso» contro Gaza del dicembre 2008 e gennaio 2009, che ha lasciato dietro di sé 1.400 palestinesi morti, hanno commesso crimini di guerra?
Alcuni di loro l’hanno coraggiosamente ammesso, si sono rivolti ai media israeliani per denunciare azioni commesse contro civili palestinesi durante quell’operazione.
Nessun comandante dell’esercito israeliano ha subito le conseguenze di queste azioni.
Perché non ci chiediamo, davanti all’impunità di queste persone, se torneranno ad agire nello stesso modo?
Molto probabilmente è questa una questione di discorso, un discorso politico e mediatico che è ormai diventato parte integrante del nostro essere opinione pubblica.
Giorno dopo giorno, alla fine il messaggio cala, ci ritroviamo ancora bloccati nei soliti schemi, e risulta necessario riflettere su aspetti elementari, e anche banali, come quelli appena presentati.
Anche se non tutti i nomi che Hamas aveva richiesto sono stati concessi da Israele, quello che ha condotto alla liberazione del giovane Shalit, è un accordo che avrebbe potuto essere stato raggiunto e realizzato in diverse occasioni, poi fallite, durante questi cinque anni.
Naturalmente non è un caso che proprio ora, con uno scenario regionale in profondo cambiamento e dopo l’iniziativa del presidente dell’OLP Mahmoud Abbas, di richiedere il riconoscimento dello stato paletinese alle Nazioni Unite, Benjamin Netanyahu abbia deciso di fare un passo in direzione di Hamas.
È possibile che, nella prospettiva di un possibile processo di pace, preferisca rafforzare Hamas a discapito dell’OLP di Mahmoud Abbas.
È molto più facile, infatti, giustificare un eventuale fallimento di futuri negoziati se la controparte principale è Hamas, sempre grazie - tra le altre cose - a quel discorso ormai calato così profondamente nell’opinione pubblica internazionale, che molto difficilmente preferirà credere a Hamas piuttosto che al governo israeliano, qualunque esso sia.
Naturalmente queste sono ipotesi ed è sempre possibile che un futuro processo di pace fallisca anche se la controparte principale palestinese sarà l’OLP.
Resta però il fatto che, così come se qualcuno dei detenuti palestinesi liberati oggi dovesse attaccare nuovamente civili israeliani sarebbe certamente più utile cercarne le ragioni nella continuazione del conflitto, se un eventuale futuro processo di pace dovesse fallire, sarebbe probabilmente perché, ancora, si basa sull’indiscussa e indiscutibile disparità di condizioni con le quali le due parti si siedono al tavolo per discuterne.
Resta però il fatto che se qualcuno dei detenuti palestinesi liberati oggi dovesse attaccare nuovamente civili israeliani, sarebbe certamente più opportuno cercarne le ragioni nella persistenza del conflitto.
Allo stesso modo, se un eventuale futuro processo di pace dovesse fallire, sarebbe probabilmente perché, ancora una volta, si basa sull’indiscussa ed indiscutibile disparità di condizioni con le quali le due parti si siedono al tavolo per discuterne.
Una disparità di condizioni evidente anche nei numeri dell’accordo che ha portato alla liberazione di Gilad Shalit oggi: 1000 palestinesi per un israeliano.
Valentina
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