Tumore: accettare la prognosi e cambiare la diagnosi – Di Nadia Clementi
Ne parliamo con il dott. Mario Ambrogi Psicologo Psicoterapeuta in Oncologia
>
Qual è lo scenario oncologico oggi in Italia?
In Italia il registro tumori conta 365.000 casi all'anno. Ogni giorno vengono diagnosticate 1.000 malattie neoplastiche. Sarebbe perciò più corretto parlare di tumore al plurale: i tumori.
Per alcuni ancora non si è trovata una soluzione e l'esito è praticamente inevitabile.
Per molti invece, tantissimi altri, si possono ottenere ottimi risultati se la diagnosi è precoce e la terapia è completa e corretta. E soprattutto se le terapie vengono eseguite subito dopo la diagnosi corretta, nel modo più preciso e completo possibile.
In campo oncologico, una diagnosi di tumore non vuol dire più morte certa e immediata. In tantissimi casi è un serio campanello d’allarme che deve essere l’occasione per modificare, se possibile, innanzi tutto le condizioni che ne hanno consentito lo sviluppo. E poi immediatamente aggredirlo in ogni modo disponibile a ridurlo.
Contemporaneamente, è decisivo sostenere il corpo nella spontanea e potentissima capacità di autoriparazione e auto guarigione: si deve accettare la diagnosi ma non la prognosi.
Della qualità della vita del paziente oncologico tra diagnosi e psicologia, anche alla luce delle terapie di nuova generazione, ne parliamo con il dott. Mario Ambrogi Psicologo Psicoterapeuta in Oncologia, Presidente IPSE onlus www.ipse.it, responsabile del Servizio di supporto psicologico dei pazienti e dei familiari del Centro per le Terapie Integrate delle Neoplasie c/o Villa Salaria Roma diretto dal dott. Carlo Pastore.
Mario Ambrogi Psicologo Psicoterapeuta in Oncologia [email protected] Albo degli Psicologi 01/12/1993 n° 3409 Albo degli Psicoterapeuti del Lazio 2/04/1995 Collabora con il Centro Terapie Integrate delle Neoplasie c/o Villa Salaria Via L. Gualterio 41 00145 Roma diretto dal dott. Carlo Pastore. Presidente IPSE Istituto di Psicologia dei Sistemi Evolutivi Onlus www.ipse.it Progetti in ambito oncologico: 2014 -2019 Servizio di Psicoterapia in Oncologia Centro Terapie Integrate delle Neoplasie Villa Salaria direttore dott. Carlo Pastore; 1996-2019 Fondazione e direzione IPSE Istituto di Psicologia dei Sistemi Evolutivi Onlus; 2009-2010 Progetto Donatori di Musica «Musica di Eccellenza nei reparti oncologici»; 2010-2011 Progetto «Filliera della Salute»: le eccellenze nell’Oncologia in Italia; 2010-2011 Sportello di ascolto per pazienti e familiari Talassemici; 2004-2005 La comunicazione Utile; etc. |
Dott. Ambrogi, per la sua esperienza qual è la prima cosa da dire ad un paziente e a un familiare che scopre una neoplasia?
«In questa sede inevitabilmente è utile fare solo discorsi in generale, con tutti i limiti di questo tipo di prospettiva. Se mi si concede una semplificazione temporanea direi: accettare la diagnosi ma non la prognosi.
«Una corretta diagnosi di tumore non esita sempre e necessariamente in una unica traiettoria inevitabile. Le statistiche sono utili ma anche ingannevoli: la persona può fare molto, anzi moltissimo. In tantissimi casi, se diagnosticato precocemente, un tumore è piuttosto un primo severo campanello d’allarme.
«Preferisco non entrare nei dettagli per evitare equivoci, ogni situazione è diversa. Ma ecco il primo punto importante: ogni situazione oltre a punti di contatto con altre situazioni simili, ha anche tante differenze che possono fare la differenza.
«La diagnosi oncologica deve essere l’occasione per riflettere e modificare, se possibile, innanzi tutto le condizioni che ne hanno consentito lo sviluppo. Quindi eliminare chirurgicamente e radiologicamente nelle modalità opportune i nuclei di sviluppo tumorale e presidiarne le recidive e le metastasi.
«La chemioterapia aggredisce il tumore e ne riduce il volume e la possibile ricrescita. Inoltre è decisivo sostenere il corpo nella spontanea e potentissima capacità di autoriparazione e auto guarigione tenendo conto che la malattia e le cure metteranno il corpo e il sistema immunitario a dura prova.»
In che modo può essere utile uno psicoterapeuta in oncologia?
«L’oncologo non può sempre accogliere ed elaborare l’effetto che la diagnosi ha sul paziente e la sua famiglia. Ha già molte cose complicate di cui occuparsi e rischia di impedire l’espressione di una difficoltà perché non è in grado di accoglierla e sostenerla.
«Per questo è ormai evidente l’utilità di avere nell’equipe oncologica anche uno psicoterapeuta esperto, capace di elaborare proprio le risonanze emozionali, ridurne l’ampiezza e permettere a tutti di prendere le necessarie decisioni in equilibrio e proseguire il cammino delle cure nel modo più regolare possibile.
«È dimostrabile che un aiuto psicologico specialistico è importante: quando le emozioni di rabbia, paura, ansia, demoralizzazione, preoccupazione ed altre ancora diventano troppo forti è necessario chiedere aiuto allo specialista. Senza vergogna.
«Alcune evidenze confermano che il sostegno psicologico ritarda l’eventuale comparsa di recidive.»
Secondo Lei perché?
«Mi piace pensare che se alla base dell’origine di una neoplasia, oltre ai fattori esterni e genetici, c’è anche una componente autobiografica, delle complessità non elaborate, l’occasione della cura propone uno scioglimento di certi nodi e se ci si riesce si libera energia utile all’autoguarigione.
«È una visione molto affascinante e forse un po’ ingenua. Di sicuro se ci si sente seguiti, accuditi e confortati è più facile superare i momenti di sconforto. I familiari non sempre riescono a sostenere quella tensione che per uno specialista invece è l’oggetto del suo lavoro.
«Una volta il mio avvocato mi disse: “quando tu hai un problema legale chiamami, da quando squilla il mio telefono il tuo problema legale diventa il mio problema e tu puoi dormire tranquillo”.
«Tutti noi abbiamo problemi emozionali e psicologici il vero passaggio è decidere di affrontarli e farci qualcosa di più utile.»
In cosa consiste il lavoro dello psicoterapeuta in oncologia?
«Come l’avvocato si occupa di questioni legali perché il suo lavoro è equilibrare quello che accade con la legislazione vigente così uno psicoterapeuta si occupa di come ciascuno di noi ha a che fare con il mondo, di come il mondo ha a che fare con noi. Il mondo reale e quello immaginario sono equivalenti dal punto di vista individuale ed è questa la parte affascinante.
«Ognuno davvero crede di vivere nello stesso mondo degli altri e invece ciascuno ne immagina uno diverso e specifico per sé. La malattia oncologica chiede come un reset collettivo, ti dà una botta in testa e ti dice “…ehi svegliati! Esci dall’incantesimo e scopri cosa è vero e cosa non lo è…”.
«È una condizione estrema, certamente crudele perché non ammette deroghe agli errori ma proprio per questo offre coefficienti di verità e di autenticità che non so dove altro si possano trovare. La psicoterapia è il luogo del come se, un mondo parallelo in cui nello spazio e nel tempo psicoterapeutico si possa rivedere tutta la propria vita con relativa calma.
«In oncologia si lavora al ritmo di un pit stop in Formula 1: la vita vera non concede soste perciò l’eccellenza è il punto di partenza, la dimensione di riferimento di tutto. In un certo senso fa più paura ma è anche molto più semplice: le questioni di relazione, di comunicazione e le infinite sfumature delle emozioni che viaggiano nei sistemi umani hanno nella necessità e nell’urgenza delle cure la loro conciliazione.
«Ovviamente è una astrazione, ma aiuta, spero, a capire come funziona. In oncologia se la paura è sotto controllo diventa vigile attenzione: aumenta la frequenza dei controlli periodici e se c’è una recidiva si scopre prima e c’è possibilità di intervenire subito, su masse più piccole e senza che l’organismo venga squilibrato eccessivamente.
«Forse è anche per questo che si osserva una variazione in meglio tra chi viene seguito anche sul piano psicologico e chi no.
«Se sei paralizzato dalla paura non fai, se accanto alla paura ti senti accolto, ascoltato e capito allora esci dalla paralisi e ti dai da fare, ti curi appunto. Cerchi le cure migliori, i medici migliori, i centri di cura migliori. Non ti accontenti dell’approssimazione perché hai paura, ma la trasformi in ricerca di eccellenza.
«Il modo in cui il paziente oncologico gestisce l’ondata emotiva generata dalla diagnosi di tumore influenzerà l’adattamento psicosociale alla malattia, la compliance: l’aderenza al trattamento e l’andamento biologico della malattia stessa.»
Quindi la Psicoterapia e l’intervento Psicoterapeutico in oncologia sono diversi?
«Ecco una domanda stupenda… Potrei parlare per giorni interi… Lo schema generale resta lo stesso, ci mancherebbe: ascolto incondizionato, non giudizio, accoglimento.
«Cambia la natura del setting perché le cure oncologiche hanno esigenze e variabilità imprevedibili: l’orario e il luogo cambiano per dove sta e come sta il paziente.
«La fatigue delle cure oncologiche è reale e va rispettata. Chi lavora come Psicoterapeuta in ambito oncologico deve essere in perfetta armonia con l’oncologo e la sua equipe, il setting è interiore e anche collettivo: tutto deve essere armonico alle cure. L’evidenza clinica segnala un miglioramento delle cosiddette curve di sopravvivenza dei pazienti oncologici seguiti anche con un lavoro di Psicoterapia fino a farle allineare a quelle di una equivalente classe di età: le persone che superano una fase di malattia oncologica ben curata e ben elaborata dichiarano addirittura di stare meglio e di essere diventate persone migliori.
«Più in generale si osserva spesso che la qualità della vita del paziente e dei familiari migliora in modo esplicito ed evidente per tutti. Non è solo l’effetto euforico dello scampato pericolo, anche certamente, ma soprattutto è che sono cambiate le sensibilità, si capisce prima e meglio cosa è importante e cosa no. Si perde meno tempo e quello che c’è si cerca di usarlo al meglio.»
In che senso si può pensare di modificare la prognosi?
«La prognosi è una ipotesi dell’andamento medio di una malattia che non tiene conto delle differenze individuali cioè della capacità di ciascuno di adattarsi e di reagire.
«Reagire significa capire fino in fondo la propria situazione clinica e le sue prospettive e fare in modo di creare con l’oncologo e la sua equipe un clima di costruttiva fiducia e collaborazione attraversando il senso di estraneazione, la paralisi e le paure e imparare ad aderire alle cure.
«La questione che voglio sottolineare è che la cura sempre, e specialmente in oncologia, è qualcosa che andrebbe fatto insieme poiché da soli è troppo dura. Non significa obbedire passivamente all’esperto ma collaborare con lui e con la sua equipe.»
È possibile cambiare veramente?
«Si fa un gran parlare di cambiamento che alla fine si fa confusione. Diciamo allora che è necessario adattarsi, modificare le nostre abitudini, riconoscerle e valutare se e quanto sono ancora utili per come richiede la situazione.
«La malattia oncologica è un esempio per cogliere questa dinamica: chi prima lo capisce prima si cura e meglio. La diagnosi offre l’occasione un attuare una trasformazione radicale e irreversibile che va compita nel modo più rapido e radicale possibile se questo è utile anzi necessario alle cure.»
Può fare un esempio?
«Mi ci ha fatto pensare una paziente, io non credo ci sarei arrivato. Assomiglia a quello che accade per una donna in gravidanza: cambiano le priorità. Diventa necessario decidere cosa non è utile o è dannoso e va evitato. Punto.
«Perciò dicevo che la prima trasformazione è spesso nelle abitudini e nei comportamenti che forse sono tra le cause della malattia o che ne impediscono la corretta cura.
«Abitudini alimentari per esempio: sospendere immediatamente una nutrizione che non è adatta alla situazione di cura. Modificare ma senza aggiungere ulteriori complessità.
«La prima reazione è infatti una forma di fuga irragionevole. È il fai-da-te in cui sembra una buona idea togliere tutto quello che sembra posa farci male. È l’idea del senza: senza zucchero, glutine, olio, uova, mozzarella, pasta, pane, salumi, formaggio, latte e carne. L’oncologo e un biologo nutrizionista sono gli interlocutori corretti per una dieta bilanciata e coordinata alle cure.
«Resto su livelli generali perché ci sono varie scuole di pensiero e vorrei evitare polemiche.
«Rimanendo in generale il fai-da-te fa rischia spesso di fare più danni della dieta a casaccio perché non tiene conto delle esigenze nutrizionali specifiche: rivolgersi ad un biologo-nutrizionista esperto di diete oncologiche è la scelta giusta perché il sistema immunitario ha bisogno di sostanze che gli sono indispensabili per una corretta e completa reazione auto riparativa. Aiuta persino a ridurre alcuni disturbi connessi alle cure.»
Spesso ai pazienti viene detto «mangi pure quello che vuole…»
«Sì lo sento anch’io riferire spesso dai pazienti e mi piacerebbe conoscere l’origine di queste frasi. Forse perché la nutrizione personalizzata in oncologia non è ancora abbastanza conosciuta, forse perché sono ancora pochi gli esperti o forse, temo, per un desiderio di non aggiungere altra pena ad una situazione di cui si intravede una fine comunque prossima: non saprei.
«Ammetto che la questione mi appassiona perché in ogni caso ha delle enormi risonanze psicologiche ed emotive. Il cibo è la prima forma di conforto ma anche di concreta attivazione: scegliere il cibo, cucinarlo è un modo per fare qualcosa di positivo.
«È un modo per legare l’ansia e l’angoscia diffusa in una azione costruttiva e anche piacevole. Poi ha anche un effetto sinergico all’efficacia delle cure e questa è ormai una evidenza.»
Per concludere ha qualche suggerimento, un libro da leggere?
«Un ottimo suggerimento è la biografia di un medico che ha attraversato l’esperienza della scoperta del proprio tumore cerebrale utilizzando fino in fondo le proprie competenze di specialista e di ricercatore: David Servan-Screiber Anti cancro Pickwik edizioni è una lettura affascinante di una storia vera narrata da un punto di vista davvero speciale e forse unico nel suo genere. A me è piaciuto moltissimo, si legge come un romanzo ed è una storia vera.»
Nadia Clementi - [email protected]
Dott. Mario Ambrogi - [email protected]