Un incontro dal titolo Forum recovery – Di Nadia Clementi
Una vita autonoma oltre la malattia, un concetto innovativo nella salute mentale
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Quando nella vita non si può decidere nulla e non ci si sente più liberi di scegliere se mangiare o uscire, allora ci si chiede che senso ha vivere? È una condizione comune a molte persone che soffrono di malattie psichiatriche gravi.
Secondo l’Osservatorio per la Salute della PAT, nel 2009 le persone che hanno avuto almeno un accesso ai servizi di salute mentale sul territorio provinciale sono state 6.638; dati più recenti del 2015 del «Rapporto Salute Mentale» prodotto dal Ministero della Salute, indicano che la prevalenza degli utenti trattati dai servizi di salute mentale della P.A.T. corrisponde a 7306 persone.
Soli, fragili e in difficoltà, i pazienti che convivono con il disagio mentale sono quasi sempre esclusi dal tessuto sociale e per loro, anche dopo la guarigione, il ritorno alla normalità è ancora più difficile.
Il recupero di questi malati passa dal loro reinserimento sociale, dall'aiuto che ricevono dagli altri e non solo dalla cura farmacologica.
Quando la mente si ammala si perde tutto: amori, amici, lavoro. L'individuo si isola e perde il suo ruolo di cittadino. Allora è necessario investire nel reinserimento di queste persone nella società.
La cura passa da interventi non strettamente medici: non solo farmaci e visite mediche, ma incontri e attività per «tornare a essere cittadini come gli altri».
Terapie mirate a ricostruire l'identità perduta di ognuno.
Una ricetta che punta sull'integrazione, ma che è anche un obiettivo complesso per lo stigma che circonda queste malattie.
È proprio questo l'obiettivo di Recovery, il progetto attivo dallo scorso anno che coinvolge tutti i servizi di psichiatria del territorio provinciale a sostegno del disagio psichico.
Si tratta di un'importante iniziativa che mette in rete una serie di soggetti che operano nel disagio con lo scopo comune di creare un nuovo percorso terapeutico finalizzato al miglioramento della vita dei loro pazienti nonostante la patologia clinica.
Gli attori coinvolti nel progetto della Vallagarina sono il servizio di Psichiatria, di Psicologia, di Neuropischiatria infantile, il servizio di Alcologia, il Serd, i servizi sociali e tantissime realtà del privato sociale che ogni giorno ospitano o lavorano con soggetti svantaggiati (coop Gruppo 78, Coop Girasole, Villa Argia, Coop Eris, Cedas, e tante altre.)
Per dare voce al lavoro svolto in questi mesi, il gruppo costituito in Vallagarina, ha organizzato il 21 novembre scorso presso l'aula magna del Liceo Rosmini di Rovereto un incontro dal titolo Forum recovery: chi siamo, dove siamo e in che direzione andiamo.
L'incontro aperto a tutta la cittadinanza, operatori, utenti, familiari e volontari è stato un momento per confrontarsi, scambiarsi informazioni, esperienze, vissuti, trovare conferme su una tematica così rilevante e per dare testimonianza che questo nuovo approccio alla salute mentale apre nuovi orizzonti e nuove possibilità future per chi deve convivere quotidianamente con un disagio psichico.
Ma che cos'è esattamente la Recovery?
«La Recovery è un termine di difficile traduzione, ma di grande pregnanza. In italiano si può esprimere con ripresa di sé, costruirsi una vita al di là della malattia mentale, riprendersi la propria vita.
Non significa necessariamente guarigione clinica, bensì enfatizza il viaggio che ciascuno compie nel costruirsi una vita al di là della malattia.
Proprio qui è il potenziale innovativo racchiuso in questo termine. Anche se i sintomi permangono, si può comunque star meglio, migliorare la propria vita.»
In che modo la recovery migliora la vita dei pazienti?
«A dircelo sono le stesse persone con esperienza di disturbo mentale severo: accettando la propria condizione, ridefinendo un senso di sé, imparando a chiedere aiuto nei momenti in cui si sente la crisi arrivare, negoziando coi servizi le cure, partecipando alla vita sociale con il lavoro e altre forme di inclusione.
«Infatti il concetto di recovery nasce dal movimento degli ex utenti, dall’ascolto dei racconti delle persone che hanno fatto i conti con la sofferenza, dal riconoscere dignità ai mille modi con cui i soggetti provano a superare le loro crisi, psicotiche o depressive.
«La recovery sfata due miti: «Prognosi negativa» e «cronicità», illuminando come le persone interagiscano attivamente col proprio disturbo (e nell’interagirvi ne influenzino il decorso) e coltivino il desiderio di costruirsi una vita oltre e nonostante il disturbo mentale.»
Per i servizi di cura è oggi vitale confrontarsi su questi terreni, per continuare a porsi a servizio della salute delle persone e dei territori. Quali sono i punti chiave a tal proposito?
«Innanzitutto Recovery non è la guarigione clinica, bensì il viaggio nel ricostruirsi una vita al di là della malattia.
«La recovery è presa di coscienza di sé e dei propri problemi, ma soprattutto dei propri obiettivi di esistenza. Il che significa uscire dal modello medico, di delega totale del corpo e della psiche ai tecnici per il trattamento della malattia.
«Recovery significa riconoscere la prospettiva dell’utente.
«Il lavoro di trasformazione delle pratiche e delle discipline appare lungo: è necessario stabilire forme di partecipazione attiva degli utenti ai servizi di comunità e rafforzare i legami con le istanze e i soggetti della vita sociale, per un pieno coinvolgimento nella promozione di salute mentale (dai familiari agli operatori dei servizi sociali, sanitari e giudiziari, via via fino a tutta la società).»
In che modo è possibile assumere come focus la qualità della vita?
«Nei servizi orientati alla recovery, i concetti di inclusione sociale e cittadinanza sono centrali. La partecipazione, i diritti, il potere e l’inclusione sociale sono strettamente intrecciati col ruolo dei servizi di salute mentale comunitari nel supportare i cambiamenti individuali, come agenzie che forniscono o catalizzano risorse e opportunità.
«Mentre l’approccio tradizionale al trattamento e alla guarigione enfatizza il sollievo dai sintomi e la prevenzione delle ricadute, per l’approccio orientato alla recovery la qualità della vita diventa centrale e il miglioramento sintomatico al contrario ha un ruolo variabile.
«Per usare le parole di Patricia Deegan (1988), leader del Mental Health Consumer Movement negli Stati Uniti, il processo di recovery non implica che le persone vengano aggiustate, come si aggiusta una macchina; si tratta piuttosto di ristabilire attivamente un nuovo modo di ridefinirsi come persone.
Il percorso di ridefinizione di sé è segnato da una nuova consapevolezza delle proprie condizioni, che non comporta il ripristino di quelle precedenti il disturbo, né tantomeno l’accettazione passiva del disturbo e delle sue limitazioni.
I racconti «dal di dentro» dell’esperienza della sofferenza psichica indicano come sia possibile, nonostante il disturbo, riconquistare una identità sociale significativa e riprendere in mano la propria vita.»
La recovery è un processo come la vita?
«Nella prospettiva delle persone che hanno attraversato l’esperienza del disturbo mentale e di quanti hanno superato nel lungo periodo l’esperienza della istituzionalizzazione, la guarigione non è intesa come un prodotto finale, ideale o statico.
«Spesso è descritta come un’attitudine, un modo di vivere e di sentire, una visione o un’esperienza, anziché un ritorno alla normalità o alla salute (Davidson, 2003). Un cambio di atteggiamento verso il proprio disturbo lo si attua quando non ci si considera più vittime impotenti della malattia.
«John Strauss è stato uno dei primi ricercatori a sostenere la cruciale importanza del ruolo attivo delle persone con un disturbo mentale severo nell’interagire e influenzare il decorso del loro disturbo.
«In un suo recente scritto (2008), Strauss sostiene che sta ancora cercando di rispondere alla domanda che gli aveva posto, quindici anni prima, una donna intervistata per la sua ricerca: Perché il medico non mi chiede mai cosa faccio IO per aiutare me stessa? Vale a dire perché si informa soltanto sui sintomi, il lavoro, le relazioni sociali, il trattamento, senza chiederle mai quale sia il suo apporto personale nel far fronte al problema?»
Quanto è significativo il ruolo degli altri?
«La recovery è un’esperienza profondamente umana, facilitata dalle risposte profondamente umane degli altri», scrive William Anthony (1993).
«Se la comprensione del ruolo svolto dalla persona è essenziale per comprendere il suo processo di guarigione, è altrettanto fondamentale capire come gli altri possano avere un ruolo rilevante in tale processo.»
Quanto è importante il supporto emotivo come fattore di svolta?
«Gli aspetti pratici, come base elementare del sostegno, vanno messi in relazione con i significati emotivi della presenza dell’altro. Molte persone con esperienza di recovery hanno sostenuto che la cosa più importante per loro nella relazione con un parente, un operatore sociale o un amico è avvenuta quando «si sono sentite prese sul serio» (Strauss, 2008).
«In una prospettiva di reciprocità, il supporto emotivo viene a essere determinante quando il familiare è stato capace di cambiare se stesso durante il processo di recovery, sentendosi maturare in qualche modo assieme al proprio parente, mettendosi direttamente in gioco, in un percorso di crescita che coinvolge entrambe le parti.
«Sia dalla letteratura sulla riabilitazione psichiatrica, sia da quella sulle esperienze vissute, risulta che uno dei fattori di svolta – tanto centrale quanto periferico – nel processo di recovery sia stata la presenza di persone capaci di trasmettere la speranza
«Saper trasmettere la speranza è quanto definisce la relazione di aiuto, che si tratti di familiari, amici, operatori o pari.»
Nadia Clementi - [email protected]