Draghi: «Rinunciare al condizionatore per aiutare l’Ucraina»

Siamo pronti a ben altri sacrifici pur di arrivare alla pace, ma non è imponendo sanzioni su sanzioni che si potranno ottenere risultati

Troviamo piuttosto infelice la battuta di Mario Draghi, quando domanda retoricamente agli italiani se preferiscano la pace o il condizionatore acceso.
Proposta così, la questione non lascia alternative. «Parigi val bene una messa», come diceva Enrico IV.
Ma in realtà non si tratta di rinunciare a qualche grado in meno d’estate o a qualcuno in più d’inverno.
Si tratta di proporre all’Italia il razionamento dell’energia. Non solo ai cittadini, ma all’intero sistema economico. A un Paese che più della metà dell’energia deve importarla.
 
I meno giovani ricorderanno ancora l’austerity del 1973, quando erano stati imposti il divieto di circolazione stradale la domenica e la restrizione di usare l'automobile a targhe alterne.
La crisi petrolifera, generata in seguito alla Guerra del Kippur per volontà dell’OPEC per punire gli Occidentali schierati dalla parte di Israele, aveva messo in ginocchio i paesi dipendenti dal petrolio.
E il Governo Rumor non aveva saputo far meglio che razionare la benzina e vietare l’uso degli automezzi privati. E non fu una passeggiata, perché i mezzi pubblici, paragonati a oggi, erano praticamente inesistenti.
 
Insomma, scoprimmo che l’Italia non solo non aveva scorte strategiche di petrolio, ma addirittura non esistevano piani per far fronte a eventuali tagli delle forniture.
Allora l’Italia pagò nel 1973 la mancanza di una visione strategica dei govenri che si erano succeduti e che non avevano mai messo in discussione la possibilità di trovarsi in brache di tela.
Poi i paesi dell’OPEC tornarono a consegnare il petrolio, perché era la loro unica fonte di reddito. E tutto tornò come prima, salvo il prezzo della benzina che rimase alto.
E, a quanto pare, non è cambiato molto neppure nei piani di prevenzione a eventuali nuove crisi.
 
L’Italia non ha fonti energetiche proprie sufficienti. Gli ambientalisti hanno impedito l’estrazione di gas naturare da più di 700 siti italiani, hanno vietato l’insorgere di altre centrali idroelettriche, contrastato le fonti eoliche, provato a impedire l’avanzamento del gasdotto TAP.
Gli italiani, dal canto loro, avevano detto no all’energia atomica con un referendum votato un anno dopo la tragedia di Chernobyl. Il risultato era scontato.
Adesso ci si trova di fronte allo stesso problema del 1973. Più della metà dei rifornimenti energetici proviene dalla Russia e il Parlamento Europeo - a grande maggioranza - ha votato di non acquistare carbone, petrolio e gas dalla Russia.
 
E questo per mettere in ginocchio la Russia che ha bisogno di quei soldi per alimentare la guerra con l’Ucraina.
La Russia assicura che venderà altrove il metano, ma di certo non impiegherà meno di quanto servirà ai paesi europei a trovare altre fonti.
E qui torniamo al tema di partenza.
 
È fuori dubbio il concetto che la Russia non doveva attaccare l’Ucraina. Le guerre non vanno fatte, punto e basta.
Ma visto che la guerra ormai c’è, va confermato il principio di aiutare l’Ucraina a sostenere la propria integrità.
Ora, senza rivangare in questa sede le mire occidentali ai paesi a ridosso delle Federazione Russa, dobbiamo dire basta alla guerra, senza se e senza ma, ma senza ultimatum.
Senza minacce che colpiscono in egual misura oriente e occidente.
 
Le condizioni sono le stesse che abbiamo visto alle origini della Prima e della Seconda guerra mondiale. Un atto ostile iniziale e un innescarsi di provvedimenti in terribile escalation.
Oggi i passi sono più prudenti. Prima le sanzioni di base, poi quelle mirate, adesso quelle strategiche. E l’espulsione dei diplomatici.
Continuando così, prima o poi una delle due parti non avrà nulla da mettere sul tavolo e penserà alle armi.
 
L’Ucraina va aiutata sia in termini umanitari che di materiale militare, anche se pare evidente che di aiuti del genere ne avevamo dati prima del conflitto e che quelli successivi (parliamo dell’Italia) potevano essere dati senza sbandierarli al mondo.
Ma il punto è un altro: non è con le ritorsioni che si arriva alla pace.
Per porre fine alla guerra bisogna far sì che Putin non perda la faccia.
È impensabile che la seconda potenza mondiale (escludendo prudenzialmente la Cina in questa sede) possa subire l’onta di non riuscire a conquistare un paese «piccolo» come l’Ucraina.
Per Putin sarebbe la fine. Quindi cederà solo a precise condizioni. Valutiamole.
 
Entrambe le parti devono rinunciare a qualcosa. Non mettiamo sul campo le questioni di principio, che hanno sempre portato soluzioni estreme.
Perciò dobbiamo essere pragmatici e non emotivi. Non è tagliando gli acquisti di gas alla Russia che possiamo arrivare al tavolo della pace.
Troviamoci davvero a un tavolo e troviamo una soluzione finale, definitiva. Sia pure a discapito di qualche territorio ucraino russofono.
Poi, a bocce ferme, ci penseremo.
 
Saremmo pronti a rinunciare ben di più di qualche grado di temperatura in più o in meno.
Anzi, cogliamo l’occasione per mettere in ordine certe situazioni. Ci sono ambienti troppo caldi d’inverno e troppo freddi d’estate. E questo soprattutto negli uffici pubblici (perché paga Pantalone), dove a volte vediamo le luci accese tutta la notte anche se non ci sta nessuno.
Ma guai a imporre agli Italiani sacrifici per infastidire un paese ostile.
La strada delle ritorsioni è una via senza fine e con un cielo senza stelle.

GdM