Storie di donne, letteratura di genere/ 345 – Di Luciana Grillo
Jennifer Pashley, «Il caravan» – Un romanzo scritto e tradotto benissimo, ma denso di dolore
Titolo: Il caravan
Autrice: Jennifer Pashley
Traduttrice: Anna Mioni
Editore: Carbonio Editore 2020
Pagine: 336, Brossura
Prezzo di copertina: € 16,50
Due ragazze dell’America profonda, fatta di cittadine sperdute in spazi desolati, Rayelle e Khaky, sono le protagoniste di un romanzo duro e complesso, scritto da un’autrice nota e premiata, capace di dare la parola ora all’una ora all’altra, in un continuo rimando di ricordi e dolori. A capitoli alternati le due donne si raccontano:
Rayelle ha ventitré anni, vive in una solitudine angosciosa, in un miserabile campo di roulottes, con una madre persa dietro il fumo e il bere e l’assenza lacerante della cugina Khaky, andata via con uno sconosciuto dieci anni prima.
«Scappò di casa quando avevo dodici anni… Quando avrei avuto più bisogno di lei. Se ne andò con un ragazzo che aveva la macchina e stava partendo per il college. A casa non le era rimasto più nessuno».
E a Rayelle invece era rimasto un buco nel cuore. A nessuno avrebbe raccontato «la solitudine di quell’estate, degli anni successivi, e come l’ho riempita di robaccia, di sesso, di bevute e di feste spinte. Questa è la parte che ometto».
A Rayelle la madre ripeteva che «tutte le macchine in pratica erano treni che sfrecciavano verso di te. Tutti gli uomini di fatto erano lupi, pronti a divorarti» e dalla povera roulotte in cui vivevano la chiamava bruscamente: «Sta calando il sole. Alza le chiappe e vieni dentro».
Ma Rayelle era affascinata dal tramonto… «in questo momento l’idea di perdermi senza farmi ritrovare mi affascina alquanto».
Khaky si sente «un rifugio per le donne. Ho la fama di essere gentile. Quando scoprono chi sono e dove vivo, vengono da me… Chi ti amerà alla fine di tutto? Chi ti prenderà il viso tra le mani accarezzandoti le tempie, chi ti laverà e ti bacerà fino a farti addormentare? Io», e procede di città in città, cambiando nome e colore dei capelli, senza dimenticare la casa in cui ha vissuto bambina: «Al piano di sopra, lungo il corridoio, la camera da letto in cui è morta mia madre.
«In cucina, il pavimento dove è caduto mio padre, così ubriaco da soffocarsi con il proprio sangue e non svegliarsi più.
«Il cortile sul retro, dove il mio unico fratello si è fatto saltare la faccia con un petardo.
La morte mi circondava come una nebbia».
Anche Rayelle va via, prima vagabondando con Chuck, «era mio zio… non mi ricordavo niente del mio vero padre… mia madre e sua sorella avevano sposato due fratelli…», poi, ferita dalla morte della sua bambina («…mi sentivo come se fosse scomparso l’ultimo dei pilastri portanti della mia famiglia. Forse la mia colonna vertebrale. Non era rimasto più niente a sostenermi») con Cooper, un uomo più vecchio di lei, curioso, a tratti misterioso, forse protettivo: «C’è qualcuno che si starà chiedendo dove sei?».
Sicuramente, non sua madre: «Avrebbero preferito che non tornassi a casa… sarebbe stato più facile per tutti se mi fossi data una regolata, e persino se fossi scomparsa, se fossi stata sbalzata da un’auto sul ciglio dell’autostrada… Magari mi avrebbe raccolto qualcuno che finalmente si sarebbe preso cura di me… che avrebbe fatto di me una vera donna. Una moglie, e di nuovo una madre».
Quanto dolore in queste ragazze! Kakhy ripensa alla morte della madre, sola povera abusata… «Avrei voluto esserci. Avrei dovuto essere in quella stanza con lei. Avrei dovuto tenerla per mano, accarezzarle la testa, darle da bere…. tutto, tranne lasciarla sola… Consunta e in frantumi».
A Carter, «falegname e giardiniere di ventinove anni» nella nuova città in cui è arrivata, Kakhy racconta: «Avevo bisogno di un posto in cui respirare… avevo bisogno di ricominciare da capo. Volevo vivere tranquilla e da sola. Per schiarirmi le idee. Pensare. Per ricordarmi cosa è davvero importante», mentre Rayelle si ferma con Cooper in un luogo squallido, dove poter parcheggiare la loro roulotte, e spera: «E forse questo è il tipo di posto in cui troverò finalmente Kakhy, in una fila di case di latta, dove potremo ritornare bambine, correre nell’erba, vagare per catturare serpenti o rane, con una scatola di scarpe piene di grilli… Andavamo nel bosco, o a piedi in città, o giù al lago. Nessuno si preoccupava che annegassimo, e nessuno si preoccupava degli sconosciuti. Venivamo molestate dai ragazzi al parco giochi…però era in casa che succedevano le cose peggiori. Sotto il nostro tetto e nel nostro letto».
L’autrice conduce le sue protagoniste e le accompagna nel mondo del perdono e della vendetta, della violenza e della redenzione.
E induce lettrici e lettori a leggere, a riflettere, ad arrivare all’ultima pagina e a concludere un tormentato viaggio fra distese di granoturco e campi sconfinati di girasoli.
Luciana Grillo - [email protected]
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