Ivo Fruet, pura energia vitale– Di Daniela Larentis

L’esposizione del noto pittore trentino sarà visitabile fino al 7 febbraio 2018 presso il Grand Hotel Trento – L’intervista

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Le splendide sale del Grand Hotel Trento, situato nel cuore della città di Trento, in Piazza Dante, stanno ancora ospitando la mostra del noto pittore trentino Ivo Fruet, allestita da Nicola Cicchelli (che segue per l’hotel le esposizioni di vari artisti).
Inaugurata lo scorso dicembre innanzi a un folto ed entusiasta pubblico sarà visitabile fino al 7 febbraio 2018.
Nato a Pergine Valsugana nel 1942, Ivo Fruet, appena ventenne, dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte di Trento si reca a Roma, su invito dell’artista Aldo Caron, per proseguire gli studi all’Accademia di Belle Arti.
Attento spettatore delle nuove tendenze e correnti artistiche italiane e americane, nonché delle primissime esposizioni e manifestazioni delle avanguardie dell’astrattismo e dell’informale italiano, colleziona nel tempo vari premi, fra i quali ricordiamo il 1° Premio nel 1960 al concorso delle Accademie d’Italia al Palazzo delle Esposizioni di Roma, seguito l’anno successivo dal 1° Premio Angelo Zanetti dell’Accademia delle Belle Arti.
Nel 1966 vince a Marina di Ravenna il 1° Premio Speciale per la Pittura d’Avanguardia, il Diploma d’onore al Premio internazionale Europa Arte a Bologna e alla 6° Biennale al Palazzo delle Esposizioni di Roma, tanto per citarne alcuni.
 
Trascorre diversi anni in Danimarca, a Copenhagen, esponendo in diverse gallerie (sia a Copenhagen che a Randers) prima di rientrare in Italia ed aprire a Pergine Valsugana il suo atelier.
Immersi nell’elegante ambientazione che ospita la mostra a lui dedicata, siamo colpiti immediatamente dalla sua contagiosa vitalità, dalla grande energia che le sue stesse opere sprigionano con forza, dominando la grande sala.
È un ricercatore, come lui stesso ci racconta, molte sono le forme espressive da lui sperimentate nella sua ampia produzione artistica: serigrafia, grafica, incisione, scultura in ceramica e il raku, ma anche la fotografia.
Ama dipingere da sempre in piena libertà, per lui non sono importanti le forme ma il gesto pittorico, la strada che intraprende è infatti quella dell’arte informale.
Le sue opere sono esposte in numerose rassegne che documentano i percorsi dell’arte in Trentino al Mart di Rovereto, a Trento ed esposizioni a Cannes, a Roma, a Milano, Bologna e Padova.
 
Approfittiamo dell’occasione, curiosi di saperne di più, per porgergli alcune domande.
 

 
Quando si è avvicinato per la prima volta al mondo dell’arte?
«Non c’è un inizio. Ho sempre disegnato. Da quando facevo le elementari, le medie e poi l’avviamento professionale, appena avevo un attimo di tempo disegnavo.
«Era un vivere disegnando, potrei dire sintetizzando il pensiero con una frase. Non c’è stato quindi un colpo di fulmine, un accadimento improvviso che mi ha indirizzato verso il disegno, si è trattato piuttosto di un’attività del tutto naturale che ho solo assecondato.»
 
Potrebbe delineare le tappe principali della sua evoluzione artistica?
«Dall’avviamento professionale sono approdato all’istituto d’arte grazie alla sensibilità della mia professoressa di disegno, la quale aveva notato come disegnavo e che mi ha poi seguito costantemente per tutta la vita. Fui poi notato dallo scultore Aldo Caron - in quel periodo lavorava a Roma - il quale mi portò con lui nella capitale. E da lì ebbe inizio la mia carriera, frequentai l’Accademia, sotto la guida di Gentilini e Maccari, conobbi molti artisti e personalità che frequentavano il mondo dell’arte.
«Vivevo, all’epoca, nel suo studio che era molto grande e si trovava al centro di Roma. Poi mi aprii anch’io uno studio nella capitale, ma nel primo periodo fui generosamente ospitato da Caron.
«Fu lui ad introdurmi nell’ambiente artistico di quegli anni effervescenti. Dal 1960 al 1970 Roma visse un periodo davvero felice, si respirava un’atmosfera vivace, aperta (gli americani portarono la pop art, prima la action painting). Producevo molto, viaggiavo in tutta Italia e non solo.
«Più che tappe sono stati cambiamenti fluidi.
«Al primo impatto con Roma, dall’Accademia, con quello che insegnava, al variegato mondo esterno, il cambiamento è stato fortissimo.
«Dal primo momento che possiamo definire figurativo, quello che riguarda le cose che si vedono, per intenderci, sono passato a un altro linguaggio, quello dell’action painting, dell’espressionismo astratto. Avevo all’epoca dei soggetti, degli argomenti che mi interessavano relativi alla società, alla cultura.
«Dipingevo interpretando questi argomenti, li traducevo pittoricamente, quello che vorrei dire è che non dipingevo più ciò che vedevo. Il cambiamento autentico è avvenuto poi.
«Pian piano mi sono indirizzato verso un altro genere di pittura, sono finito ora paradossalmente con il dipingere quello che non so nemmeno io di dipingere, questo è stato il vero passaggio. Se so quello che dipingo divento l’esecutore di un’idea e non mi interessa più ora come ora. Assolutamente non mi interessa più.
«I lavori che vede esposti qui attorno a noi, sono lavori eseguiti a questo modo. È un po’ come camminare, senza sapere dove si sta andando. Non un viaggio organizzato, come quello che compie un artista giovane, che sa dove sta andando. Naturalmente il viaggio è comunque piacevole e pieno di sorprese.
«Io, tuttavia, voglio fare ogni passo senza sapere dove quel passo mi porterà. Alla fine mi trovo in un posto, stupendomi io per primo di essere arrivato fino a lì: guardo il lavoro e chiedo al lavoro di parlarmi. Io sento il bisogno di non sapere quello che sto facendo mentre dipingo, dopo anni di lavoro conquisti questa libertà.»
 
Ci sono artisti che hanno in qualche modo influenzato il suo lavoro, almeno inizialmente?
«Da un punto di vista artistico e anche umano per me ha avuto un gran fascino lo scultore Caron, al quale sono rimasto legato tutta la vita. Al di là delle differenze che poi rimangono, sono stato affascinato dal suo modo di lavorare.
«Siamo arrivati a un punto di convivenza tale per cui ci chiedevamo reciprocamente se potevamo usare io alcune soluzioni del suo lavoro e viceversa, pur essendo lui molto più grande e più famoso di me. C’era una perfetta sintonia fra noi. Era un uomo dall’animo nobile, una grande persona oltre che un grande artista.
«Mi piaceva Afro, vorrei raccontare a proposito di questo grande artista una curiosità; ho dei lavori del 1963-64 che venivano scambiati per suoi lavori, erano effettivamente molto simili, anche se all’epoca ancora io non lo conoscevo.»
 
Può essere ancora interessante l’arte figurativa nella nostra contemporaneità o lo è maggiormente quella astratta?
«Arte astratta e arte figurativa sono due modi convenzionali di esprimersi attraverso forme e colori. L’arte figurativa aveva nel passato anche una funzione educatrice, narrativa; nella nostra epoca, con la radio, la televisione e ora anche grazie ad internet, l’ha persa.
«L’arte, in realtà, non è però mai stata davvero totalmente figurativa. Se lo è stata lo è stata per un motivo: perché doveva inevitabilmente raccontare attraverso delle forme, dipinte o scolpite, le storie del potere. La grande arte ha sempre dovuto convivere col potere.
«L’artista ora si è liberato da questi doveri di racconto specifici e quindi può esprimersi in forme che sono solo apparentemente difficili, in realtà non lo sono. Lo sono solo per la persona che vuole vedere se una forma assomiglia a qualcosa di contingente, potremmo dire.
«L’artista ora può essere autenticamente un poeta e seguire se stesso, diciamo che già con l’avvento della fotografia la fantasia del poeta si è liberata dagli obblighi a cui doveva soggiacere un tempo.»
 

 
Ha mai fatto dei ritratti?
«C’è stato un periodo in cui ho fatto molti ritratti, me li chiedevano gli amici e non solo (a mia moglie ne ho fatti una settantina). Erano quadri che non ritraevano il volto. Io dipingevo il personaggio e gli oggetti a lui cari. Ritraevo la persona, ne dipingevo la personalità e gli interessi attraverso degli oggetti, fermavo attimi di vita vissuta.»
 
Come sceglie i titoli delle sue opere?
«Conoscere il titolo di un quadro è come conoscere il nome di una persona. «Lo conosco, si chiama Mario» si dice, in realtà sapere il nome di qualcuno non vuol dire affatto conoscere la persona a cui corrisponde quel nome.
«Molti miei quadri hanno dei titoli che sono stati dati da amici. Loro mi conoscono bene, conoscono il mio lavoro, i miei interessi, il mio percorso. In un quadro ci sono racchiusi una serie di pensieri che hai maturato, è per questo che è difficile e riduttivo dare un titolo a un’opera.»
 
Lei è uno sperimentatore: fra le molte tecniche da lei utilizzate nel corso degli anni quale preferisce e perché?
«Dopo anni di lavoro conosci bene, se non benissimo, un po’ tutte le tecniche. Una delle tecniche che ho abbandonato fin da giovane è l’olio, soprattutto per ragioni di tempo. Ho bisogno che il lavoro asciughi abbastanza velocemente, per poter dopo apportare modifiche; l’olio presuppone tempi di asciugatura lunghi.
«Ogni momento della storia ha adottato tecniche particolari, oggi si utilizzano gli acrilici. I supporti su cui dipingo sono tele, tamburati di compensato, utilizzo la iuta, mi piace tanto anche dipingere su carta. Realizzo un’infinità di lavori su carta. Mi piace il foglio bianco, su cui poi lasciare il segno. Il segno ti guida, ti parla.»
 
Ha avuto dei temi particolari da cui ha tratto nel passato ispirazione?
«Sì, ci sono sempre stati degli argomenti che mi hanno ispirato, che sviluppavo anche nell’arco di tempo di quattro-cinque anni. La macchina è stato un tema a me caro in un certo momento della mia vita: macchine che diventavano umanoidi, per esempio, macchine da cui ci facciamo più o meno comandare. In altri momenti ho affrontato temi diversi, il paesaggio anche urbano, come nel periodo romano.
«Ricordo per esempio il periodo in cui venivano abbattuti edifici, passando per le strade si vedevano le case sventrate, palazzi aperti che mettevano a nudo uno spaccato di vita vissuta in cui erano visibili oggetti di uso quotidiano. Ho dipinto per anni questi paesaggi, poi, naturalmente mi sono interessato a molti altri argomenti, come la guerra, le bombe.
«C’è stato anche un periodo in cui ho dipinto un albero, lo intitolavo sempre l’ultimo albero, un tema legato all’ambiente. Poi, disegnavo il mare inquinato, ciò che uccide l’uomo e l’umanità.»
 
E ora?
«Ora non ho argomenti, ho abbandonato gli argomenti da tempo e sono andato oltre. Per me dipingere adesso è come andare a fare una camminata. È necessario che io, passo dopo passo, cammini, alla scoperta di me stesso. Ora è il lavoro stesso che dialoga con me, che mi dice come continuare una volta immerso nel mio mondo.»
 

 
Utilizza delle tinte ricorrenti, ci sono, cioè, dei colori che preferisce rispetto ad altri?
«Dipende dai momenti. Il rosso è un colore effettivamente ricorrente nelle mie opere, così come il bianco. Ho lavorato per anni usando solo rosso, grigio, nero e bianco. Non sopportavo il giallo e nemmeno il verde. Adesso li uso entrambi.
«Ci sono stati dei momenti, invece, in cui avevo la necessità di usare solo il bianco e il nero, altri il blu e azzurri di ogni tipo. I colori esprimono il mio stato d’animo, adesso sto usando diversi colori, non mancano comunque mai il bianco e il nero.»
 
E quando pensa a un colore a quale pensa?
«Quando penso a un colore io penso al rosso.»
 
Cosa significa guardare un quadro?
«I quadri parlano. Guardarli non deve significare volerli capire a tutti costi, cercando dei significati in tre minuti. I quadri stabiliscono dei dialoghi con chi li osserva, dialoghi che continuano nel tempo.»
 
Artisti si nasce o si diventa?
«Non si nasce artisti. Si diventa artisti. Si nasce con una predisposizione, un’inclinazione che va coltivata, un po’ alla volta.
«Per quanto geniale si possa essere, alla fine ciò che conta è la quantità di lavoro impiegata a fare la differenza. La quantità di lavoro ti fa acquisire conoscenze, non tanto esterne, ma interne, lavorare molto ti serve per arrivare a conoscere te stesso, ad essere consapevole. Più ti ascolti e più sei te stesso e diventi unico e allora sei portatore di un messaggio nuovo.»
 
Da artista, come immagina il futuro dell’arte?
«Grandioso, infinito. Già io sono un sopravvissuto. Sono sempre meno coloro che dipingono come me con un pennello su una tela, molti artisti ora utilizzano la tecnologia. Lavorare con le tue mani ti dà dei tempi precisi, ritmi che collimano con il tuo modo di essere.»
 
C’è un messaggio che vorrebbe lasciare ai giovani artisti o a coloro che vorrebbero diventare tali?
«Assecondate la vostra indole, difendetela in tutti i modi. Se ne avvantaggerà anche la vostra salute. Ritagliatevi il tempo per dedicarvi a ciò che più vi piace, possibilmente quotidianamente, anche se per ragioni di vita doveste fare altro. È curativo riservare degli spazi per se stessi, indipendentemente dall’essere artisti o meno.»
 
Un messaggio, quello lasciatoci da Ivo Fruet, molto bello, indirizzato ai giovani e anche ai meno giovani.
Volersi bene significa anche ascoltare se stessi e i propri bisogni, lasciando che la parte migliore di sé possa emergere ed esprimersi al meglio.
Guardando le sue opere si capisce senza ombra di dubbio che lui abbia imparato molto bene a farlo, sono un concentrato di bellezza e pura energia vitale.
 
Daniela Larentis - [email protected]