Giacomo Santini, una vita di successo – Di Nadia Clementi

In un'intervista esclusiva, le tappe di una carriera che raccontiamo ai giovani d'oggi

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Giacomo Santini ha percorso una vita intensa e coronata da successi.
Ha iniziato ai tempi della scuola, quando frequentava la ragioneria al Tambosi di Trento e da quando ha preso in mano il microfono per presentare al Teatro Sociale la «Stella della Bontà» non l’ha più abbandonato.
Entrato al giornale l’Adige, dove è diventato giornalista, è passato alla Rai di Trento e dalla redazione locale è riuscito a fare il balzo verso le cronache nazionali per lo sport, le Olimpiadi, il ciclismo, lo sci e altro.
Quando sembrava avesse finalmente deciso di riposarsi, al termine di una lunga vita lavorativa (poche persone hanno un curriculum come il suo), ha deciso di candidarsi per Forza Italia, prima come Deputato Europeo e poi come Senatore, essendo eletto per ben due volte a Bruxelles, a Strasburgo e a Roma.
Anche il nostro direttore, il giornalista Guido de Mozzi, ha iniziato frequentando Ragioneria, per poi entrare nel mondo della comunicazione dedicandosi con successo al giornale da lui fondato. 
Guardando i giovani d’oggi sorge spontanea una domanda: cosa è cambiato dal periodo in cui si sono diplomati loro rispetto ai nostri giorni? 
Questo il senso dell'intervista a Giacomo Santini.
 

 
Senatore Santini, era così facile allora scegliere il lavoro che piaceva di più? Eravate più determinati? Avevate più possibilità? 
«Sono vivi in me i ricordi di quando ero studente dell’Istituto Tambosi. Frequentavo un corso di studi che in quegli anni molti sceglievano perché permetteva uno sbocco lavorativo immediato, oltre ad un possibile accesso all’Università di Economia e Commercio. Il liceo e tutte le altre facoltà universitarie erano privilegio di pochi con certezze economiche.
«Posso dire che incominciai ad alimentare la mia vocazione giornalistica proprio nel periodo scolastico. Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta nacque al Tambosi un’organizzazione studentesca, l’O.S.I.T. (Organizzazione Studenti Istituto Tambosi) di cui fui eletto Presidente. Il nostro impegno era tenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica su due temi: il primo era la difesa dell’italianità di Trieste minacciata da vicende fortunatamente superate ed il secondo era la protesta contro il terrorismo in Alto Adige, con la serie di attentati che costarono la vita a decine di militari.
«L’O.S.I.T. era rigorosamente apartitica e apolitica impegnata anche nell’organizzazione di iniziative benefiche e ricreative, oltre a stampare un giornaletto. Non ero uno studente modello a causa dei miei troppi interessi extrascolastici (giocavo anche a pallacanestro) ma me la cavavo bene in italiano, grazie anche alle mie origini emiliane e così mi risultava facile parlare in pubblico.
«Ogni anno l’O.S.I.T. organizzava un’importante manifestazione benefica e culturale denominata Stella dalla bontà: si trattava in sostanza di un riconoscimento alle buone azioni di studenti del Trentino. Fu quella l’occasione per il mio debutto come presentatore al Teatro Sociale. Avevo diciassette anni e con tutta l’incoscienza di quell’età impugnai il microfono senza immaginare che sarebbe stato l’inizio di una vita professionale.»
 
«Dopo le varie manifestazioni preparavo e portavo i comunicati stampa alle redazioni dei tre giornali allora su piazza: L’Adige in via Rosmini, l’Alto Adige in piazza Lodron e il Gazzettino in piazza Battisti.
Una volta diplomato e costretto a lavorare, decisi di continuare a studiare iscrivendomi alla Facoltà di Economia, per poi passare a Sociologia e infine a Scienze Politiche a Urbino. Per garantirmi gli studi insegnavo cultura generale presso l’Istituto professionale ENALC (Ente nazionale Lavoratori Commercio).
Mentre lavoravo e studiavo continuavo a collaborare con il giornale l’Adige, curando la pagina economica e quella sportiva. Affrontai una condizione lavorativa precaria, allora definita “abusiva”, dal 1962 al 1965, ma avevo capito che era una buona anticamera per seguire la vocazione giornalistica.
«Finalmente, con infinita pazienza e con tanta passione, fui assunto come praticante e il 21 dicembre 1966 superai l’esame di Stato per diventare professionista. Al giornale l’Adige ebbi la fortuna di incontrare grandi maestri come Giorgio Grigolli e Rino Perego, vicedirettori ed Aldo Gorfer e Gianni Faustini come caporedattori.»
 
Com’era il giornalismo di quel tempo?
«Eravamo una dozzina di persone in redazione, le notizie arrivavano al telefono e altre “ fuori sacco”, vale a dire che le informazioni provenienti dalle valli Trentine venivano depositate in una busta e consegnate agli autisti delle corriere per il trasporto a Trento.
Il nostro compito era di aprire le buste, selezionare ed elaborare gli scritti, predisporre il menabò, passare il tutto alla tipografia sottostante per la composizione in colonnine di piombo e l’impaginazione e poi alla rotativa.
«La prima pagina usciva anche alle due di notte e, infatti, ricordo di aver lavorato per anni fino alle tre di mattina. Le pagine fresche di stampa erano sempre un momento emozionante che dava anche un senso di orgoglio e di appartenenza ad una squadra.
«La prima firma in prima pagina (un’emozione per un giovane giornalista) la ottenni con un articolo di cronaca nera dedicato alla triste morte di due fratellini annegati nel Rio Gola a Ravina: una tragedia che commosse tutti, ma che mi consentì di mettere alla prova la mia capacità di raccontare.»
 

 
Ci può raccontare qualche fatto risalente ai tempi del giornale l’Adige?
«Un evento epocale indimenticabile fu l’alluvione del 1966 che distrusse anche parte dalla nostra sede, in particolare mise fuori uso la rotativa che stampava il giornale. Un disastro incredibile, un’esperienza durissima, un severo banco di prova per tutti noi giornalisti che continuavamo a operare dislocati nelle valli.
«Io fui inviato subito a Primiero, devastato dal torrente Cismon. Ricordo la fatica e le ore di lavoro per comporre centinaia di pagine di cronaca.
«La stampa era temporaneamente spostata a Verona con grande impegno organizzativo e sacrificio anche economico per l’editore. Il giornale l’Adige in quel tempo era di proprietà della Curia e della Democrazia Cristiana.»
 
Com’era la RAI a Trento e Bolzano negli anni sessanta? Era solo radio, vero?
«Sì, era solo radio. La prima sede Rai fu aperta a Bolzano. Da Trento s’inviavano le notizie per telescrivente e tutte le trasmissioni partivano da Bolzano.
«Nel 1966 fu aperta una piccola sede in via Perini a Trento: l’organico era di una quindicina di persone tra giornalisti, tecnici ed amministrativi. I giornalisti erano tre. Nacque il primo “Gazzettino delle Dolomiti” che andava in onda a mezzogiorno e la sera.
«Dal 1966 al 1970, mentre ero all’Adige, la Rai – ricordando le perfomances microfoniche studentesche – mi chiese di collaborare part–time per servizi in voce, in particolare per le interviste sportive. Ovviamente prima dovetti sottopormi a un esame sulla qualità della voce e la pronuncia: la fortuna di essere di origine bolognese e di non avere inflessioni dialettali fu un vantaggio.»
 
«Vennero gli anni caldi del 1968, fortemente segnati dalle vicende nate a Sociologia dal movimento di lotta continua e divenute in seguito embrione della triste stagione delle Brigate Rosse. Trento e il Trentino primeggiavano nella cronaca nazionale.
«Per noi giornalisti seguire quegli eventi non era privo di rischi. Non posso dimenticare una sera in piazza Duomo quando fui chiamato fascista da un esponente di Lotta Continua e fui preso a palle di neve. Fui salvato da quello che stava diventando un vero linciaggio da un dirigente del movimento L.C. che garantì per me.
«Era il tempo degli opposti estremismi, dei cortei con vetrine fracassate e scontri con le forze dell’ordine, delle bombe nei cinema, dei sit-in in piazza Duomo, della gogna a due esponenti della destra ed altre vicende che sconvolsero la mite Trento (fino ad allora).
«Durante gli anni di frequenza a Sociologia, come studente lavoratore, conobbi quella che sarebbe poi diventata la leadership di Lotta Continua, da Curcio e Margherita Cagol a Rostagno, Saugo, Boato. Come studente partecipavo alle assemblee, ma, un giorno, mi fermarono davanti alla porta dell’aula magna e mi dissero che dovevo decidere se fare lo studente o la spia.
«Il mio ruolo di giornalista non era considerato compatibile; mi convinsero che ero fuori posto e mi misi da parte. Era gente che non scherzava. Erano anni di paura, anche se il terrorismo delle Brigate Rosse non era ancora scoppiato, ma la tensione crescente era nell’aria.»
 

 
«Nel 1970 decisi di lasciare il giornale Adige per dedicarmi a tempo pieno alla RAI come radiocronista, prima a Trento, poi sulle reti nazionali. Per l’esperienza sulle vicende del ’68 mi spostarono alla sede di Milano, dove il movimento era in ritardo rispetto a Trento, ma le dinamiche erano le stesse.
«Da lì a poco tempo ricevetti palesi minacce e capii che era meglio cambiare aria. Fu così che accettai la proposta del caporedattore della Rai di Roma di dedicarmi esclusivamente alle cronache sportive a livello nazionale.
«Fu una fuga strategica anche perché nel frattempo avevo messo su famiglia e volevo evitare imprevedibili conseguenze.
«Dal 1974 in poi la mia attività giornalistica si concentrò quasi esclusivamente sulla cronaca sportiva con servizi, interviste, commenti e dirette, in particolare nel ciclismo d’estate e nello sci d’inverno.»
 
Come le capitò l’occasione di fare il balzo in nazionale? È vero che il merito va alle Olimpiadi di Montréal del 1976 prima e poi tutte le altre?
«Sì, quella delle Olimpiadi di Montreal fu un’esperienza di lancio: avendo studiato la lingua francese all’Università e avendo fatto diverse esperienze di lavoro in Francia e in Belgio fui avvantaggiato anche perché in quel momento la lingua ufficiale del ciclismo era appunto quella francese.
«Feci l’inviato speciale radiocronista per tredici anni in tutte le grandi corse ciclistiche e nelle gare di coppa del mondo e mondiali dello sci.
«Poi, nel 1987, il Direttore di RAI-sport, Gilberto Evangelisti mi chiese di passare in televisione sempre per fare il telecronista di ciclismo e sci. In vent’anni di sport ho raccontato otto edizioni dei Giochi Olimpici, cinque estive e tre invernali, fino al 1994, quando iniziai la mia esperienza di parlamentare.»
 

 
Berlusconi fondò Forza Italia e lei si sentì pronto per un nuovo gran balzo. Cos’è che l’ha spinta verso il Cavaliere?
«Berlusconi ebbe una grande intuizione nel 1994 quando chiamò la gente come me. Si rivolse a persone politicamente vergini, per costruire una nuova generazione di soggetti politici capaci di dare una risposta agli anni bui di tangentopoli.»
 
Com’è nata l’esperienza col Cavaliere? Da chi è stato contattato?
«Era il primo maggio del 1994. Mi trovavo in un pullman di regia a Cassino dove avevo appena finito una telecronaca di ciclismo e mi arrivò una telefonata da un inviato di Berlusconi che mi proponeva di candidarmi per le elezioni europee. Rimasi sorpreso e chiesi perché proprio io che non avevo mai avuto una tessera di partito e lui rispose che lo sapeva e che cercavano proprio gente nuova anche se inesperta, ma conosciuta.
«E poi avevano fatto dei sondaggi che avevano indicato previsioni elettorali promettenti per me. Risposi subito di no. Ero innamorato della mia professione ed ero in un periodo particolarmente promettente.
«Per coincidenza, pochi minuti dopo questa richiesta di candidatura, mi telefonò Gianfranco De Laurentis, allora direttore di RAI sport e mi informò che i professori della Bocconi, incaricati di sanare la situazione amministrativa della RAI, erano alla ricerca di risparmi. Invece di intervenire sui rami secchi della burocrazia interna, avevano iniziato a tagliare i servizi giornalistici e tra questi anche le mie due rubriche ciclistiche di particolare successo.
«A fronte di questa brutta notizia, quasi per ripicca, accettai la candidatura proposta da Berlusconi. Sinceramente non mi aspettavo di essere eletto e invece arrivai terzo nel nord-est: un successo che sorprese molti. Con un po’ di rammarico, presi l’aspettativa dalla Rai ed iniziai così la mia esperienza di Deputato Europeo.»
 

 
Sappiamo che lei rimpiange i tempi in cui è stato europarlamentare. Può spendere due parole sull’esperienza a Bruxelles?
«Al Parlamento Europeo riuscivo a lavorare con grande efficacia, senza troppe pressioni partitiche. Poi, nel 1998, il partito mi chiese di fare il capolista alle elezioni provinciali e regionali nel momento in cui Dellai debuttava con la sua “Margherita”. Fui eletto con ottomila voti e per due anni coprii insieme gli incarichi di Deputato Europeo e Consigliere Provinciale e Regionale.
«Infine scelsi il Parlamento Europeo fino alla conclusione della mia esperienza nel 2004. Durante il mio mandato seguii con particolare interesse le tematiche legate ai trasporti, come quella del tunnel del Brennero e poi l’agricoltura e diversi problemi sociali come l’immigrazione.
«Nel 2003 mi nominarono Presidente della Fondazione Italiana per le montagne, un incarico che mi consentì per diversi anni di occuparmi di temi legati ai territori montani, con possibilità di lavorare anche presso il Ministero per gli affari regionali di Roma.»
 

 
È stata una bella esperienza?
«Con il passare degli anni, da quel lontano 1994, chi come me aveva creduto in un impegno indipendente e puramente tecnico, quindi senza troppi condizionamenti dal partito, si trovò isolato e francamente deluso perché i volponi della vecchia politica tornarono ben presto a insinuarsi tra noi ed erano troppo bravi nel portare avanti le loro azioni poco trasparenti, ma strategicamente efficaci.
Come me rimasero spiazzati altri personaggi che incontrai alla mia prima esperienza al parlamento europeo: il mitico campione di calcio Giampiero Boniperti, la cantane Ombretta Colli, il primo astronauta italiano Franco Malerba ed altri soggetti che con la loro popolarità avevano calamitato molti voti. Nel 2006 fui poi candidato al Senato e rieletto nel 2008, fino alla conclusione dell’ultima legislatura nel 2013.»
 
Adesso a cosa si dedica?
«Oggi, oltre a fare il nonno, mi diverto a fare l’ortolano e il giardiniere, desidero stare con la mia famiglia ripagandola del tempo che ho speso per la mia carriera.
A conclusione del mio servizio politico sono ritornato a occuparmi della mia grande passione: lo sport. Sono stato eletto Presidente internazionale del Panathlon che si occupa in particolare di educazione dei giovani atleti e difesa dei valori etici nello sport.
«Il Panathlon International è un club service, nato 63 anni fa a Venezia, ora con sede a Rapallo, conta 13 mila soci distribuiti in 300 club, in 25 paesi del mondo e in 5 continenti. Mio compito è andare a visitarli e tenere viva la fiamma olimpica.»
 

 
Può dare dei consigli ai giovani che ci leggono e ai loro genitori sul come affrontare la vita?
«Consiglio di non fare politica in età giovanile e di non farsi prendere dalla passione per un partito, perché condiziona troppo la vita e rende dipendenti da un mondo che spesso non rispetta la dignità delle persone.
«Basti guardare ciò che è accaduto in questi ultimi anni e sta tuttora verificandosi nella politica nazionale e provinciale. Suggerisco di costruirsi una base professionale solida che garantisca autonomia e poi si può affrontare tutto il resto.
«Al termine di questa lunga esperienza mi sento di aggiungere che ciò che mi ha reso sereno in questi anni di impegno parlamentare è stata proprio la consapevolezza di avere alle spalle un mondo diverso che mi consentiva di poter fare a meno della politica.
«Come, in effetti, è stato ed è oggi.» 
 
Nadia clementi - [email protected]
Senatore Giacomo Santini