«Il corpo folle», poesie di Annachiara Marangoni – Di Daniela Larentis
Presentazione del libro a Palazzo delle Albere, Trento, con intervento critico di Barbara Cappello – Intervista all’autrice
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Mercoledì 26 giugno 2019 è stato presentato innanzi a un folto pubblico il libro di poesie «Il corpo folle» di Annachiara Marangoni, alla presenza dell’autrice e con intervento critico di Barbara Cappello, presidente di FIDA Trento, Federazione Italiana degli Artisti Trento.
L’evento si è tenuto a Palazzo delle Albere, Trento, ed è collegato alla collettiva «Artisti a Statuto Speciale», visitabile fino al 30 giugno 2019.
Ad impreziosire l’incontro, la lettura di alcune poesie di Alfonso Masi, accompagnata dalla base musicale del chitarrista Stefano Cattoni.
Due parole su Annachiara Marangoni prima di passare all’intervista.
L’autrice veronese è pedagogista, vive e lavora a Trento da circa 20 anni, attualmente dirige una cooperativa sociale che si occupa di disabilità intellettiva. Primariamente di formazione scientifica, poi umanistica, non ha mai smesso di amare nel linguaggio la ricerca letteraria e l’arte.
«Il corpo folle», edito da Montedit (2019), è il suo secondo libro di poesie, segue a Nerooro (2013), pubblicato dallo stesso editore, così come ad altre pubblicazioni in numerose raccolte poetiche.
Il titolo del volume è emblematico, precisa l’autrice nella prefazione: «Il corpo folle si presenta come tema di indiscussa oscenità. In un’epoca veloce e binaria, sempre più povera del pensiero divergente, vediamo due ingranaggi fondamentali che articolano l’impianto della relazione («ho timore a pronunciare la parola sentimento», aggiunge), la tecnica come livello avanzato di astrazione e l’annientamento del senso di colpa dovuto al soffocamento della trasgressione, che non possono più confrontarsi con la censura – benedetta censura – nel mare asfittico della trasgressione».
Precisa, inoltre: «Nel linguaggio poetico fioriscono tutti i significati, ogni cosa è la stessa e il suo contrario, come nella follia. Come nell’amore. Questa oscenità trascende ogni volgarità per arrivare nei gabinetti pubblici del desiderio anestetizzato dell’uomo moderno».
Provocatoriamente, solleva un interrogativo: «C’è qualcosa di più osceno di questo?»
La poesia di Annachiara Marangoni è una poesia colta, mai scontata, in cui è evidente la centralità del linguaggio (che per l’autrice è continuo oggetto di ricerca): lei presta particolare attenzione non solo a ciò che dice ma a come lo dice.
I significati dei termini utilizzati non sono dati dalla mera corrispondenza con oggetti, ma dall’uso che ne viene fatto per il raggiungimento di determinati scopi, ogni parola sembra assumere una precisa finalità.
L’autrice ha una precisa idea sull’amore di coppia a cui accenna durante l’intervista, rimarcando i differenti modi delle donne e degli uomini di viverlo, un’idea lacaniana secondo la quale, semplificando al massimo il concetto, l’esperienza dell’amore presuppone una separazione: in quest’ottica la richiesta d’amore nasce da una mancanza, e se amare può voler dire fare dono della propria mancanza è anche vero che l’amore implica l’esistenza di un muro (il muro del linguaggio, essendo il linguaggio una struttura di separazione).
Cercare nel rapporto di coppia un amore speculare (una relazione dove a contare non è più l’altro con la sua identità distinta) vuol dire dire quindi rincorrere un amore illusorio.
Chi legge le vibranti poesie di Annachiara Marangoni potrà dover fare i conti con molte verità, del resto non esistono parole e significati che non siano generatrici di conseguenze. L’autrice inventa anche neologismi, quando si sviluppano nuovi termini o quando si modificano i modi in cui il linguaggio viene utilizzato si pianta il seme del cambiamento.
Alcuni dei suoi potenti versi potrebbero rimandare anche all’idea di amore ben descritto da Massimo Recalcati, psicanalista tra i più noti in Italia, il quale sottolinea a riguardo (nel suo «Mantieni il bacio» edito da Feltrinelli): «Perché, se lo osserviamo nel suo nascere, l’amore è innanzitutto provocato dall’incanto dell’incontro.
«L’amore – scrive – si offre infatti non come una regressione o una ripetizione, ma come una sorpresa. […] Ma un incontro è sempre fatto di dettagli, di frammenti, di pezzi di corpo: sguardi, profumi, suono della voce, colore dei capelli o degli occhi, abiti, silhouette. Non ci si innamora mai di anime, ma sempre e solo di corpi.»
L’autrice nella prefazione del libro così descrive la poesia: «[…] Dice di non poter trattenere i gemiti della passione per un tacco a spillo, per un ciuffo di capelli bianchi. Piove sulla sera rossa come una ciliegia acerba.
«Cammina svogliata e nuda sulla banchina a nord di Anversa. È la poesia, questa scostumata, irritante, dissacrante, maledetta poesia che scarnifica il copro davanti all’Altro.
«Si spoglia di ogni pudore, non trattiene più la bestemmia dentro l’impermeabile stropicciato.
«Lascia cadere nei luoghi martiri del post moderno, gocce di sangue e liquidi d’amore».
Curiosi di saperne di più, l’abbiamo incontrata e le abbiamo rivolto alcune domande.
Il libro di poesie dal titolo «Il corpo folle» è stato da poco presentato alle Albere, nell’ambito della collettiva «Artisti a Statuto Speciale». Chi ha partecipato all’evento e a che titolo?
«La presentazione del libro è stata curata da Barbara Cappello, presidente di FIDA Trento, con la quale ho collaborato in più occasioni. Ha recitato le poesie Alfonso Masi, accompagnato da una base musicale del chitarrista Stefano Cattoni.»
Quando si è avvicinata alla poesia per la prima volta?
«Tutto risale a qualche anno fa. Non ho mai avuto l’intenzione di scrivere nulla; nonostante i miei genitori fossero particolarmente amanti della poesia, soprattutto mia madre, non ho avuto mai una particolare dimestichezza con questo mondo.
«Qualche anno fa ho fatto un sogno molto forte, mi sono addormentata sul divano e ho sognato di essere una foresta, un sogno emozionante che peraltro non si è più ripresentato ma che ha dato il via alla mia esperienza poetica, in quanto da quel momento, e nei giorni successivi, quando era ancora vivida in me quella sensazione, ho avvertito l’urgenza di scrivere.
«Ho così scritto la poesia dal titolo Io… la Foresta, la quale descrive la mia singolare esperienza onirica. Ho continuato a comporre e dopo qualche anno è uscita la mia prima raccolta, Nerooro, un volume edito da Montedit.»
Nello scrivere le poesie di questa ultima raccolta poetica presentata alle Albere da che cosa ha tratto ispirazione maggiormente?
«La mia ispirazione più forte è il linguaggio. Sono un’amante del linguaggio, dello studio del linguaggio, la voce mi ha sempre molto affascinata, quindi potrei dire che sono un’amante del linguaggio ascoltato e parlato.
«Lo psicanalista Jacques Lacan mi ha ispirato molto, anche se avevo già scritto il mio primo libro quando sono venuta a contatto con la psicoanalisi lacaniana. Quello che mi affascina di più non è tanto l’esperienza di vivere, bensì come si descrive questa esperienza di vivere.
«Se togliamo l’anima della poesia, come spesso si intende è quella del sentimento, c’è anche un altro tipo di scrittura, evidentemente poetica, che è diversa e più moderna, legata a delle forme di scrittura che volutamente sono asettiche, distaccate, astratte o mentalizzate, dipende dall’autore, questo peraltro non è il mio genere poetico-; io credo, invece, che le esperienze che si desiderano raccontare attraverso le parole della poesia non necessariamente devono essere degne di essere raccontate.
« Penso al componimento poetico noto con il nome di haiku, per esempio, è una forma linguistica nella quale si descrive un’esperienza senza trasmettere il sentimento. Io l’ho fatto tante volte nella poesia, cioè di racchiudere un’esperienza, anche talvolta volutamente insignificante, dentro qualcosa di fortemente significativo per me, lasciando questi momenti di vuoto di emozione e di sospensione, nello stesso testo poetico, con degli affondi violenti o aggressivi.»
Che funzione possono assumere?
«Il significato che do io quando scrivo è collegato all’inserimento nel ritmo delle parole di un’esperienza di vita (che può essere emozionante, violenta, traumatica, può essere una passione, una delusione).
«La domanda che mi pongo è come possa fare la parola a trasmettere qualcosa, visto che quell’esperienza non è stata vissuta da chi legge. Che immagine posso trasmettere di quello che ho vissuto io? Cosa passa tra me e te quando leggi la mia poesia e quando io descrivo una situazione? Sono io che devo fare entrare te, lettore, nel modo che decido io, dentro questa esperienza. Lo faccio mediante uno strumento potentissimo che è il linguaggio.
«Non lo faccio perché sono in grado di scrivere, perché sono colta e quant’altro, ma perché uso delle parole. Mi è capitato, volutamente, alcune volte, di scrivere delle poesie che non hanno nulla a che vedere con il sentimento, che non hanno nulla a che fare con niente. Ho immaginato qualcosa, talvolta, provando a emozionarla mediante il linguaggio.
«Per me la poesia è sperimentale, generativa, è creazione, del resto l’etimologia della parola stessa, ricollegabile al greco, ha il significato di creare, è in antitesi con la parola filosofia, con il pensiero logico.
«Platone ne La Repubblica condanna la poesia, mette in guardia i Greci dai poeti dicendo che sono dei folli. È un rimando al libro e al titolo, la poesia è dei folli perché l’uso oscillante del linguaggio toglie e mette un senso a seconda di come si utilizzano le parole.»
Il titolo della raccolta che significato assume?
«In realtà avevo scelto un altro titolo, dal significato molto forte, che utilizzerò invece per il terzo libro (che sto scrivendo). Le poesie di questa seconda raccolta sono molto diverse da quelle del volume precedente ed evidenziano l’intenso legame tra il proprio corpo e l’esperienza quotidiana, i nostri pensieri, le nostre maschere.
«Il corpo, per una svariata serie di ragioni anche religiose, è spesso messo in secondo piano rispetto alla mente, alle capacità cognitive, in realtà è l’unico strumento che noi abbiamo per interagire con il mondo esterno.
«È l’unica, vera, reale considerazione che noi abbiamo di noi stessi. È anche al contempo il nostro vero limite, in quanto siamo avvolti dalla pelle, è quindi un’esperienza di mancanza che abbiamo rispetto a tutto il resto.
«Gli ho dato uno statuto dignitoso poetico, è folle perché è legato all’oscillazione del linguaggio, è un corpo poetico…»
È autobiografico?
«Certamente. Tutte le mie poesie (che scrivo dando la voce a un uomo, a una donna o a una bambina) hanno un contenuto autobiografico. Non è un romanzo, la poesia riguarda me, tuttavia io do voce a vari personaggi.
«Tante volte si tratta di un uomo che parla di una donna, quell’uomo in realtà sono io. Non sono mai io, tuttavia, la destinataria del pensiero. Io sono l’attore del mio pensiero.
«Io non descrivo quello che immagino di ricevere o l’atto di deprivazione che ho ricevuto, che ho subito, io sono l’attore, a parte alcune eccezioni, come la poesia Il tarlo, una poesia che ho scritto in relazione a una malattia che ha vissuto mia sorella e alcune altre (come Donna Luna Luisa, dedicata a una ragazza che poi è diventata una donna e che conosco da molti anni).»
Fra quelle proposte ce n’è una alla quale emotivamente si sente più legata o che ritiene particolarmente significativa per lei?
«Ne ho alcune. Innanzitutto Io… la foresta, scritta in un gergo del tutto diverso dal mio modo di scrivere abituale, tuttora sconosciuto per me, è come qualcosa che mi ha attraversata in modo anche mistico, potrei dire.
«Poi, un’altra poesia a cui sono particolarmente legata è Rondine nera. Ho un forte legame anche con la poesia sul roseto, scritta in una forma così delicata che mi stupisco di essere stata io l’autrice di quei versi.»
Nella pubblicazione «Nerooro» del 2013 vi è una poesia, intitolata «Amore eterno», attraverso la quale sembra raccontare un certo tipo di relazione, un certo tipo di stare insieme. «Che relazione la mia e la tua? Ognuno a sé, ognuno in uno, a caccia delle stesse parole in discorsi opposti […]». Anthony Giddens ha coniato il termine di «relazioni pure» per indicare un certo atteggiamento della vita di coppia di oggi, definibile in maniera del tutto sintetica come «rapporti senza impegno», basati sulla gratificazione reciproca. Lei brevemente che cosa pensa a riguardo?
«Questa poesia in realtà racconta proprio dell’impossibilità di un rapporto sessuale tra uomo e donna. Parto da un principio lacaniano, in questa poesia, in realtà, non c’è nessuno spunto legato a una libertà di coppia, non c’è nessuno spunto da parte mia che indica che nella libertà, che nella concessione, nel dare spazio e comprensione, ci sia un futuro per l’amore.
«Anzi, al contrario, io racconto proprio l’opposto. Io dico che non c’è nulla che noi ci possiamo dire e non c’è nulla per cui tu possa capire me e io possa capire te – io sono sempre radicale nelle mie poesie, una radicalità provocatoria -, ed è proprio lì che c’è l’eternità.
«Quando dico che non esiste rapporto sessuale ne sottolineo il paradosso; la relazione autentica fra uomo e donna è quella che si basa sull’incomprensione, sulla incapacità di capire l’esigenza dell’altro, sono due strutture differenti. La donna per sua natura, per sua struttura psicologica, per sua essenza spirituale, per il potenziale generativo che ha, non può essere tradotta dall’uomo.
«È nella natura delle cose e va accettato, non devo trarre, io che sono donna, gratificazione dal fatto che sono capita da te uomo, devo abbandonare questo senso di pretesa. La mia è una posizione radicale sulla mancanza.
«All’amore possiamo dare mille significati. Noi stiamo parlando dell’amore di coppia. Se parliamo dell’amore di coppia io assumo una posizione radicale, esso ha lo statuto della mancanza. Ciò significa che mai come in un rapporto di coppia si vive questo sentimento.
«Se vivo l’esperienza di madre, invece, questa sensazione non la vivo. L’amore di madre è pervasivo. Quando ci si innamora, invece, è l’altro che mi fa vivere la mancanza. Questo è il dramma. Noi tutti esseri umani cerchiamo di colmarla nell’altro, secondo me questo è un errore strutturale.
«L’altro non sarà mai responsabile della nostra felicità. Se io veramente amo te, so che non potrai mai colmare la mia mancanza. È il massimo rispetto riconoscere te altro da me. Il punto è proprio questo e spesso sono proprio le donne a pretendere un tipo di attenzioni, un tipo di amore che umanamente non si potrà mai avere…»
Daniela Larentis – [email protected]
«Rondine nera»
La rondine curvava il volo
abbassando lievemente le ali
fendendo un poco l’aria.
Nulla sanguinava dal taglio
tra il suo fragile corpo piumato
e l’aria densa
colma di sementi e primavera.
Volava e volava
sul campo di Faraday
seguendo il sentiero aereo
di un corso d’aria
sino a un nido di carne e fango
disegnato nell’angolo retto
tra un tetto e un muro.
Hai gli occhi pieni di sospiro
rondine.
©Annachiara Marangoni