Un’importante esperienza umanitaria in India

Ne parliamo con la dottoressa Romina Campostrini – Di Nadia Clementi

L’India è il secondo paese più popolato del mondo. È un paese misterioso dove la bellezza e la ricchezza spirituale convivono con una povertà scioccante alla quale nessuno può rimanere indifferente.
Fare del volontariato in queste zone non è solo aiutare le persone bisognose: è offrire qualcosa di se stessi agli altri, le proprie idee, i propri pregi e le proprie capacità, adattandosi spesso a situazioni di vita lontane da quelle a cui si è abituati .
Si tratta di un’esperienza impegnativa, specialmente in un contesto così diverso dal nostro, ma che ripaga ampiamente gli sforzi perché permette di arricchirsi di nuovi orizzonti sociali e culturali. 
 
La protagonista di questa testimonianza umanitaria in India è la dott.ssa trentina Romina Campostrini, laureata presso l’Università degli studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia nel 2009 in Progettazione e gestione del turismo culturale.
Nata nel 1986, vive a Besenello, è una donna determinata, sensibile e coraggiosa.
A soli 25 anni lascia la propria famiglia per l’India. Vive con tanto entusiasmo la sua grande passione per questa terra tanto complessa, eterogenea, così diversa, fatta di bellezza e mostruosità, ricchezza e povertà.
Nel suo racconto ci porta in un mondo primitivo capace di trasmettere sentimenti ed emozioni uniche, richiamando alle nostre menti il vero amore per la vita.
 
Come è nato l’amore per l’India?
«Come tante cose, è nato per caso. Era l’ottobre del 2010 ed ero appena rientrata da un’esperienza di 6 mesi come volontaria in Mozambico.
«Gli studi universitari li avevo conclusi e stavo valutando nuove possibilità di lavoro ed esperienze all’estero.
«Navigando in rete ho scoperto un’associazione che opera in India, così mi sono iscritta senza pensarci troppo ed il 3 marzo 2011 sono atterrata a Bombay, ignara di cosa mi stesse per attendere!»
 
«A differenza dell’Africa, quello per l’India non è stato amore a prima vista. Ho trascorso i primi mesi pensando che quello non fosse il posto che faceva per me: la vita di villaggio, profondamente radicata nelle proprie tradizioni e lontana dall’accettazione del diverso, mi ha messa a dura prova.»
 
«Ma ben presto le cose sono cambiate ed è nato un grande amore. La stessa vita di villaggio che inizialmente non riuscivo a capire e sembrava non accettarmi, ora è la parte dell’India che preferisco.
«Con i suoi profumi intensi, i canti dei templi, i colori dei sari, gli innumerevoli festival e le altrettante divinità, i rituali tradizionali, le sue contraddizioni, la sua storia secolare, ma soprattutto con l’affetto e la devozione della sua gente, l’India è diventata la mia seconda famiglia.»
 

 
Quanti viaggi hai fatto in India fino ad ora e dove?
«Sono stata in India due volte. La prima volta a sud, nella regione del Karnataka, e precisamente nel bellissimo villaggio di Anegundi a pochi kilometri da Hampi, famosa meta turistica e importante sito archeologico dell’Impero Vijayanagara.
«La seconda, ho avuto l’occasione di visitare l’affascinante Rajasthan, nel nord del Paese, per poi far ritorno alle origini, ossia ad Anegundi.»
 
Che differenze hai notato fra l’India del Sud e l’India del Nord?
«Sicuramente l’India del Nord è molto più conosciuta e turistica, e di conseguenza molto più preparata all’accoglienza degli stranieri. Al contrario, il sud è molto più selvaggio e lontano dal turismo di massa.»
 
Ci puoi parlare a grandi linee del tuo progetto?
«Per 9 mesi ho lavorato presso l’ONG The Kishkinda Trust, che opera da circa 15 anni nel piccolo villaggio di Anegundi e la cui linea guida è quella di favorire l’emancipazione femminile.
«Per fare ciò è stato creato un luogo dove le donne potessero incontrarsi ed imparare a creare oggetti di artigianato in fibra di banano, migliorando così la propria condizione socio-economica all’interno della comunità.
«Ad oggi le stesse realizzano soprattutto oggetti creati con la tecnica dell’uncinetto e macramè, in fibra di banano appunto, o altri materiali naturali o riciclati.»
 
 
 
«Il Trust si occupa anche di molti altri progetti il cui scopo è la sensibilizzazione dell’intero villaggio riguardo a temi importanti quali la raccolta differenziata, la conservazione del patrimonio architettonico locale, la danza e il teatro per bambini ed adolescenti del villaggio, la creazione di una biblioteca pubblica e lo sviluppo del turismo rurale.
«Durante la mia permanenza mi sono dedicata, per la maggior parte del tempo, alla sezione di Women Empowerment, progetto che ormai conta circa 600 artigiane.
«In particolare ho insegnato ad un gruppo di 8 giovani ragazze quella che per me è sempre stata una passione: la creazione di orecchini, collane e braccialetti in filo di seta attraverso una particolare tecnica di intrecciare il filo, chiamata macramè.»
 

 
«Parallelamente a ciò, mi sono occupata di turismo, essendo tale zona, un’ importante meta turistica, nonché famoso luogo di pellegrinaggio, per la presenza della collina su cui, secondo la mitologia indiana, è nato il dio scimmia, Hannuman.
«In concreto mi sono presa cura della ristrutturazione di una delle guest house e di una casa antica gestite entrambe dal trust; dell’ammodernamento del negozio in cui si vendono i prodotti creati dalle donne; dell’accoglienza degli ospiti e sistemazione nelle varie strutture ricettive, affiancando ed educando il personale locale.»
 
«Inoltre, un progetto che ha richiesto molto impegno ed energia da parte mia, dei miei genitori e di alcuni amici di Anegundi, senza i quali niente sarebbe stato possibile: è stata la costruzione di 16 bagni in altrettante case private.
«Dal momento che l’attuale situazione dei servizi igienici nel villaggio è una questione problematica, ho deciso di offrire il mio contributo. Nello specifico ho realizzato sia una raccolta fondi in Italia, che la costruzione dei bagni stessi.
 
 
   
Chi ti ha aiutato in questo?
«Le persone del villaggio, che dopo i primi mesi di diffidenza e distacco hanno saputo andare oltre la diversità e riconoscere in me un’insegnante, una sorella, una figlia o un’amica.»
 
Cosa ti ha colpito soprattutto nell’ultimo viaggio?
«Non posso dire di non essere rimasta a bocca aperta di fronte alla ricchezza e la bellezza architettonica dei capolavori del Rajasthan, in India del Nord, ma ciò che mi ha dato le emozioni più grandi è stata ancora una volta Anegundi.»
«Mi ha colpito l’entusiasmo della gente di fronte al mio arrivo a sorpresa. La reazione del piccolo Sandeepa (5 anni appena compiuti), che ridendo a crepapelle senza avvicinarsi non riusciva a capacitarsi del fatto di vedermi di nuovo a casa sua.
«L’emozione nel vedere che la bambina che avevo visto nascere un anno fa, adesso cammina. L’amarezza nel trovarsi di fronte ad alcuni di quei bagni costruiti con tanta fatica, che adesso sono diventati un magazzino.
«Rendersi conto che tante cose sono cambiate, ma la maggior parte sono rimaste esattamente come le avevo lasciate. Ma soprattutto avere la conferma che quella che è stata la mia grande famiglia per un anno, non ha smesso di esserlo.»
 
Quali sono le maggiori difficoltà che hai incontrato?
«Di difficoltà ce ne sono state tante, per cominciare il clima e il cibo. Sono arrivata in India insieme all’estate, che porta con sé un caldo soffocante e i relativi problemi di siccità. Il cibo è piccante, e a me il piccante non piace! Mangiavo insieme ad una famiglia locale e i tre pasti della giornata erano tutti a base di riso, condito con una generosa manciata di peperoncini.
«Ma gli ostacoli più grandi sono stati quelli legati, come ho già detto, alla profonda diversità culturale e alla difficoltà della la gente ad accettare nella propria comunità qualcuno che le loro regole non le conosceva. In primis la difficoltà dell’essere donna, con tutto ciò che ne consegue. Non ero ben vista perché non portavo i capelli lunghi e legati, perché non indossavo i tipici vestiti indiani, perché non portavo le cavigliere, il bindi, i braccialetti, perché non sono vegetariana, perché alla mia età non sono ancora sposata. I ragazzi che lavoravano nel trust non mi rivolgevano la parola, perché, se l’avessero fatto, chissà cos’avrebbe pensato la gente
 
«L’aver voluto fin da subito imparare la lingua locale, il Kannada, ha fatto sì che mi integrassi più velocemente. Ma nonostante questo, ero comunque una donna, e il sesso femminile in un villaggio come quello conta ancora poco. I miei progetti andavano quindi a rilento, nell’attesa che ogni mia iniziativa venisse approvata da qualcuno che avesse più influenza di me.
«Fortunatamente le cose col tempo sono cambiate, e sono così riuscita a guadagnarmi la stima ed il rispetto di tutto il villaggio. Mi sono fatta conoscere come persona e come rappresentante di una cultura opposta rispetto alla loro.
«Allo stesso tempo ho cercato di indianizzarmi il più possibile, vestendomi nell’unica maniera che loro ritengono adeguata, partecipando alla vita di comunità con tutti i festival e le cerimonie che ne conseguono e stando sempre più a stretto contatto con le famiglie.»
 
«Da quel momento non ho avuto più bisogno di ottenere l’approvazione di nessuno, ma sempre più persone si avvicinavano a me con la volontà di aiutarmi, appoggiando i miei progetti e le mie iniziative, impegnandosi a farli diventare realtà, e dimostrandomi che credevano in me.»
 

 
Raccontaci come vive la gente nei villaggi?
«La gente nei villaggi vive una realtà molto diversa dalla nostra: la definirei semplice e genuina se comparata alla nostra…e affollata, in famiglie per così dire allargate!
«Le giornate sono scandite dalla solita routine che vede donne e uomini impegnati in faccende ben distinte. Ci si alza all’alba, le donne lavano i piatti del pasto serale, cucinano le loro enormi quantità di riso per i tre pasti della giornata, accompagnano i bambini a scuola (anche se capita di vederne passeggiare da soli già all’età di 4-5 anni!), puliscono la casa ed il piazzale d’entrata e poi vanno al fiume a lavare i panni.
«Quando tornano possono riposare, per poi dedicarsi ancora alle loro faccende domestiche. Gli uomini si occupano del bestiame, e vanno a lavorare nei campi, anche se a dir la verità ho sempre visto anche molte donne partecipare alle mansioni agricole. I piccoli negozi del paese sono gestiti per lo più dagli uomini; i lavori di responsabilità appartengono a loro, così come l’ultima parola nelle decisioni importanti.»
 
«I bambini vanno a scuola a tempo pieno, il sabato solo mezza giornata e la domenica è vacanza. Si ritrovano così a giocare a cricket in strada, o si inventano giochi come quelli che facevano tanto divertire i nostri nonni. Così un sasso può diventare una palla, un ramo si trasforma in cavallo e la sabbia in ottimo foglio da disegno.
«In generale la vita delle persone è scandita da molti rituali, a cominciare da quello della nascita, la cerimonia della scelta del nome, il primo compleanno, la prima mestruazione, il matrimonio, solo per citarne alcuni.
«Il tutto è accompagnato dai colori e dai suoni delle numerose festività religiose, che celebrano le varie divinità indù, quelle di carattere popolare e quelle legate al calendario agricolo.»
 
 
     
 
Sei stata aiutata dalla tua famiglia e in che modo è stata coinvolta?
«Fortunatamente i miei genitori mi hanno sempre dato la possibilità di scegliere e mi hanno altresì supportata in qualsiasi mio progetto.
«La mia famiglia si è sempre dimostrata partecipe ed interessata tanto da farsi convincere a volare in India per vivere in prima persona una parte fondamentale della mia vita: quella dei miei progetti e delle mie sfide, ma anche delle mie gioie e soddisfazioni in un mondo che a parole non sarei mai riuscita a descrivere.»
 
Come vorresti l’India del tuo futuro?
«Vorrei un’India pronta ad accogliere la mia nuova idea, che è maturata e si è sviluppata in quest’ultimo anno e che spero possa concretizzarsi a breve: si tratta di un progetto di promozione e sensibilizzare della popolazione occidentale sull’importanza di un modo di viaggiare responsabile, che pone particolare attenzione al rispetto dell’integrità culturale e ambientale della popolazione locale.
«Mi spiego meglio: consapevole del potenziale turistico del villaggio di Anegundi, e mossa anche dalla volontà di aiutare le persone del posto a me molto care, ho sviluppato il desiderio far conoscere questa realtà ad un pubblico più vasto.»
 
«È nata così l’idea di organizzare personalmente dei viaggi rivolti a coloro che abbiano la curiosità di vivere un’esperienza diversa, dettata dalla voglia di conoscere la profonda cultura indiana attraverso il contatto diretto con la comunità locale, favorendo e incrementando in questo modo le entrate e lo sviluppo della popolazione del luogo coinvolta nell’attività turistica.
 

 
«Senza amore non potremmo sopravvivere. Gli esseri umani sono creature sociali e prendersi cura gli uni degli altri è la base stessa della nostra vita.»
 
Nadia Clementi