«Che tenerezza!» – Di Daniela Larentis

Sentimento o virtù, comunque la si voglia etichettare, la tenerezza è molto importante anche in campo educativo

Foto di Ivan Piffer.
 
La tenerezza è una dimensione nobile dell’amore senza condizioni, di un cuore che sa dare con naturalezza senza nulla pretendere. È un sentimento, un misto di commozione e dolcezza, tipico della mamma nei confronti del proprio bambino, una virtù rivalutata anche dalle parole di Papa Francesco (il quale fin dall’inizio del suo ministero ha esortato a non averne paura).
Alle volte basta poco per relazionarsi con il prossimo amorevolmente, con i propri genitori o figli, con le persone a cui si vuole bene: una carezza o un semplice sorriso, gesti tanto piccoli quanto importanti, che non costano davvero nulla e che riscaldano il cuore!
Anche gli animali possono ispirare un’infinita tenerezza, i cuccioli di ogni specie sono dolci e irresistibili; pensiamo ai gattini o ai cagnolini che ogni giorno vengono adottati anche grazie al sentimento che sanno suscitare.
La tenerezza, sentimento o virtù, comunque la si voglia etichettare, è molto importante anche in campo educativo.
 
Bruno Rossi, nel libro intitolato «Il lavoro educativo – dieci virtù professionali» (edito da Vita e Pensiero), affrontando il tema dell’affettività e del lavoro educativo, a proposito della tenerezza scrive (cap. X, pag. 169): «L’umanità dell’uomo, piuttosto che nella fredda razionalità, è da individuare soprattutto nei sentimenti. Sono questi la componente in grado di dare un contributo maggiore alle qualità che rendono la persona pienamente umana. Sono queste le forze interiori che l’aiutano a conseguire la sua piena fioritura.
«Il significato più profondo dell’umanità dell’uomo è necessario rinvenirlo, ultimamente, nell’approssimarsi all’altro con spirito di riconoscimento e ospitalità, di rispetto e tenerezza, di dolcezza e umiltà, di lievità e porosità, sapendo essere senza insistenza, sapendo essere-in-punta-di-piedi!».
 
Sottolinea più avanti: «[…] Pervasa alquanto dalla logica cartesiana e tecnicistica, la cultura occidentale, favorendo la dissociazione tra cognizione e sensibilità, ha dato un contributo di non poco conto alla costruzione di corazze finalizzate all’autodifesa nei riguardi della tenerezza considerata come sintomo di debolezza e vissuta come minaccia alla sicurezza personale, orientando il soggetto a contrassegnare le sue comunicazioni secondo i valori della funzionalità e della produttività, inducendolo a provare disagio di fronte alle manifestazioni affettuose, a percepirsi debole quando si fa carico dell’altrui vulnerabilità e pertanto anche della propria, e per questo sospingendolo ad accettare solo relazioni formali e a non chiedere mai affettività, stimolandolo a realizzare modelli di vita freddi e glaciali, razionali e astratti, sollecitandolo ad afferrare anziché accarezzare, incoraggiandolo a ingaggiare lotte piuttosto che a farsi costruttore di convivenza affettuosa e democratica.»
 
La tenerezza, come l’autore fa presente, è spesso identificata in puro sentimentalismo, da molti inoltre è ritenuta la virtù dei perdenti, un comportamento nostalgico che può danneggiare se stessi.
Egli fa riflettere sul fatto di come si dimentichi che la tenerezza sia una forma di vita indispensabile nel costruire relazioni umane significative e che non sia, inoltre, una prerogativa di genere.
Sottolinea a pag. 171: «La tenerezza non appartiene di diritto alla donna. La tenerezza non squalifica l’uomo. La tenerezza non è un sapere biologicamente e/o culturalmente attribuibile alla donna, non è costituente e compito di cui, secondo una costruzione sociale diffusa, è titolare unicamente la donna. Tanto l’uomo che la donna possono subire la consistente forza condizionante di simboli culturali nemici della relazione tenera.»
La tenerezza, infatti è una virtù che ogni individuo può apprendere, alberga nel cuore di molti il desiderio di felicità, il bisogno di coltivare un «sentire sereno».
L’autore spiega che la tenerezza è il punto di equilibrio fra l’odio e l’amore, «la mano che afferra e la mano che accarezza metaforicamente finiscono per rappresentare gli estremi delle possibilità della comunicazione umana».
Se afferrare è dominare, imporre la propria volontà, la carezza è il suo opposto. Bruno Rossi rimarca il fatto che la tenerezza, questa straordinaria emozione, questo sentimento che diventa risorsa, non può essere vissuta come un atto di forza, di asservimento dell’altro. Scrive a tal proposito (pag. 173): «La carezza è una mano rivestita di pazienza che tocca senza ferire e che si ritrae per permettere di muoversi al soggetto con cui siamo in contatto […]».
 
Fa riflettere il pensiero dell’autore, quando, parlando di lavoro educativo, afferma che «l’educatore tenero dona non obbligando alla reciprocità, convinto che si può raggiungere il cuore solamente di coloro cui si è donato se stessi».
«Responsabilità e tenerezza sono inseparabili - afferma – essere teneri non è sostituirsi, non è iperproteggere, non è soffocare, non è rinunciare all’impegno dell’aiutare l’altro a oltrepassarsi». La tenerezza è «dolce ma non sdolcinata», è «consolante ma non consolatoria».
Essere teneri, essere gentili (come viene evidenziato nel testo la tenerezza si alimenta di gentilezza, sono «virtù gemelle») aiuta a vivere meglio, a dipanare la matassa dei problemi, allentando le tensioni della vita.
Essa accorcia le distanze, favorisce la fiducia e la crescita reciproca, si esprime attraverso i gesti e le parole che nascono dal cuore.
 
Daniela [email protected]