Stefano Allievi al Festival dell’Economia – Di Daniela Larentis

È uno dei massimi esperti nello studio dei fenomeni migratori, in sociologia delle religioni e in studi sul mutamento culturale in Europa – L’intervista

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Stefano Allievi, professore ordinario presso l’Università di Padova, è uno dei massimi esperti nello studio dei fenomeni migratori, in sociologia delle religioni, e in studi sul mutamento culturale in Europa.
Domenica 2 giugno 2019 lo abbiamo incontrato a Trento al Festival dell’Economia di cui era ospite, in occasione della presentazione del libro della giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi (vedi nostro servizio) dal titolo «Io Khaled vendo uomini e sono innocente», edito da Einaudi, con la quale ha dialogato per più di un’ora innanzi a un folto e attento pubblico (l’incontro era coordinato da Tonia Mastrobuoni, giornalista e corrispondente da Berlino de La Repubblica).
Nel 2015 Allievi è stato direttore del Master sull'Islam in Europa dell'Università di Padova.
Dal 2017 è direttore del Master in «Religions, Politics and Citizenship», in collaborazione con l'Instituto de Investigaciones y Estudios Superiores de Granada, l'Università del Piemonte Orientale e il FIDR (Forum Internazionale Democrazia e Religioni).

Da gennaio 2016 è membro del Consiglio per le relazioni con l'islam italiano presso il Ministero dell'Interno.
Nel 2016/2017 è stato membro della Commissione di studio sul jihadismo e la prevenzione della radicalizzazione presso la Presidenza del consiglio dei ministri.
 
Prima di entrare nel mondo accademico, ha svolto attività giornalistica come giornalista professionista (dal 1981) e come operatore sociale e sindacale, svolgendo nel contempo attività di ricerca.
È stato per molti anni editorialista dei quotidiani regionali del gruppo Espresso-Repubblica del Nordest, e lo è oggi del «Corriere della sera - Corriere del Veneto», dove tiene anche il blog «ApertaMente», e del «Corriere Imprese».

Al di là degli impegni accademici, svolge un'ampia attività di divulgazione e di animazione sociale e culturale; e coltiva in parallelo una passione di lungo corso per la poesia.
Ha diretto e partecipato a programmi di ricerca sui temi della pluralità culturale e religiosa in Italia e all’estero: ne ha da poco coordinato uno per conto del Network of European Foundations, su Conflicts over mosques in Europe.
Ha svolto il ruolo di peer reviewer per numerose riviste scientifiche internazionali, per progetti di ricerca e premi scientifici, per assegnazione di posti in università straniere.
 
È nel comitato scientifico di alcune riviste specializzate e del Festival Vicino/Lontano di Udine.
È autore di oltre un centinaio di pubblicazioni in vari paesi, e di numerosi articoli e interviste su dibattiti di attualità. Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue europee, in arabo e in turco.
Tra i suoi testi più recenti ricordiamo: «Immigrazione. Cambiare tutto», edizioni Laterza, 2018; «I musulmani nelle società europee. Appartenenze, interazioni, conflitti» (a cura di S. Allievi, R. Guolo e M.K. Rhazzali), edito da Guerini e Associati, 2017; «Il burkini come metafora. Conflitti simbolici sull'islam in Europa», edito da Castelvecchi, 2017; «Conversioni: verso un nuovo modo di credere? Europa, pluralismo, islam», Guida Edizioni, 2017.
Avendo letto alcuni suoi libri presenti al Festival, gli abbiamo rivolto delle domande.
 

 
Nelle sue pubblicazioni lei evidenzia il fatto che nel prossimo ventennio il mondo ricco non potrà fare a meno dei migranti, riferendosi al declino delle nascite in Europa, in particolare in Italia, e alle conseguenze che ciò comporterà anche riguardo al sistema pensionistico. Potrebbe brevemente accennare l’argomento?
«Il vero problema è che non abbiamo mai potuto fare a meno né della emigrazione né della immigrazione. A cavallo del Novecento sono andati via 50 milioni di Europei, l’88% dei quali è finito nelle Americhe. Noi abbiamo iniziato ad accorgerci delle emigrazioni quando i flussi si sono intensificati in entrata, per decenni sono stati in uscita e nessuno si era mai lamentato.
«Al di là di questo, sì, c’è un problema di sostenibilità pensionistico: in questo momento abbiamo 3 lavoratori attivi ogni 2 pensionati, nel 2050 il rapporto sarà 1 a 1. Tra dieci anni si stima che in Italia ci saranno 6,3 milioni di anziani non autosufficienti, non solo di anziani, significa 1 su 10. E’ un dato che fa riflettere.»
 
Come dice lei nel libro «Immigrazione, cambiare tutto», questo fenomeno non può essere letto con la logica dello schieramento ideologico. Cosa risponde alla frase che spesso di sente pronunciare «aiutiamoli a casa loro»?
«Le faccio un esempio: due dei miei tre figli vivono all’estero, potevano essere aiutati a casa loro? Sì, ma hanno preferito andare via. Fatta questa osservazione, possiamo dire che, certo, si può benissimo aiutarli anche a casa loro, però non solo dicendolo ma facendolo!
«Di solito chi lo dice non lo fa! Se lo vogliamo fare si può fare e certamente serve, dopodiché serve ancora di più molto banalmente l’economia, perché gli investimenti diretti delle aziende in Africa sono già più alti degli aiuti allo sviluppo, ma le rimesse degli emigranti (cioè il denaro che inviano nel loro paese, alle loro famiglie) pesano più degli investimenti stranieri diretti.
«È sempre stato cruciale questo aspetto, nel dopoguerra l’Italia lo ha teorizzato, lo testimoniano i verbali dei Consigli dei ministri, in cui sostanzialmente si diceva che se ne sarebbero dovuti mandar via un numero x in America in modo da far aumentare le rimesse, rivelatesi fondamentali per noi.»
 
A suo avviso, sono più determinanti i fattori di attrazione o quelli di spinta nella scelta dei migranti di lasciare la loro terra di origine?
«Quando noi parliamo con i migranti e chiediamo loro perché arrivano da noi, loro enfatizzano spesso i fattori di spinta, fra cui la necessità di sfuggire alle guerre, alla fame, allo sfruttamento, alle ingiustizie, alle calamità naturali ecc., i cosiddetti push factors.
«Però, se poi li conosciamo meglio scopriamo che quelli di attrazione sono altrettanto importanti, fattori che hanno a che vedere con il modo in cui si vive da noi, c’è chi parte per sfuggire al controllo sociale delle famiglie, molti per concretizzare il sogno di poter condurre una vita migliore, più interessante, più dinamica, del resto, se ci pensiamo anche per i nostri emigranti è la stessa cosa, chi va a lavorare all’estero lo fa per un insieme di ragioni.»
 

 
Parlando delle trasformazioni in atto, lei sottolinea tre fondamentali mutamenti che hanno a che vedere con ciò che sta avvenendo, sintetizzati da tre parole chiave: la mobilità, la pluralità e la mixité. Che cosa si intende in estrema sintesi quando si parla di questo fenomeno?
«La mixitè è una delle conseguenze inevitabili della mobilità e della pluralità. La si può chiamare in molti modi, meticciato, confronto, incontro, si tratta di una dinamica sociale potente. Le fornisco un dato: l’anno scorso in Italia un matrimonio su 10 è avvenuto fra persone di nazionalità differenti. Questo vuol dire che c’è un pezzo di società che detesta la diversità culturale, ma ce n’è anche un pezzo, minoritario, a cui piace (a questo pezzo di società piace così tanto che se la sposa…).»
 
Fra le soluzioni da lei ipotizzate per cercare di risolvere il problema ci sarebbe l’apertura di canali legali di ingresso, oltre, naturalmente, la contestuale costruzione di politiche di sviluppo. Quali modalità suggerisce, oltre ai corridoi umanitari?
«I corridoi umanitari riguardano in realtà solo i richiedenti asilo; noi dobbiamo ammettere che non dobbiamo salvare i poveri richiedenti asilo, ma dobbiamo salvare noi stessi grazie ai migranti economici.
«Se li gestiamo noi, attraverso i visti, contrastando quindi il loro arrivo per vie illegali, possiamo in qualche misura sceglierli, rispetto ai posti di lavoro che sono qui disponibili, alle competenze di cui abbiamo bisogno.»
 
Quali sono e saranno, a suo avviso, le skills più importanti dell’epoca della globalizzazione, quelle che i giovani dovranno coltivare maggiormente?
«Servono molti tipi di competenze. Fra le fondamentali c’è sicuramente la conoscenza delle lingue e poi la capacità di adattamento, il saper passare da un mondo culturale all’altro»

Daniela Larentis – [email protected]