«È possibile un altro genere di comunicazione?»

Tavola rotonda di giornalisti trentini sulla «Comunicazione di genere»

Simonetta Fedrizzi e Sabrina Zanoni.

La Commissione provinciale Pari Opportunità tra donna e uomo, che si occupa di promuovere e favorire la diffusione dei principi di uguaglianza, pari opportunità e valorizzazione delle differenze di genere, ha organizzato una tavola rotonda per invitare i giornalisti trentini a esprimere la propria soggettività su alcuni temi della comunicazione.
L’obbiettivo è quello di alimentare processi di cambiamento culturale per favorire una comunicazione non sessista, inclusiva e rispettosa delle differenze evitando di veicolare stereotipi di genere.
Vi hanno partecipato operatori di un quotidiano, di una televisione, di una radio, di tre quotidiani online e di un periodico della Provincia autonoma di Trento.
Di seguito riportiamo la nostra posizione. Precisiamo però che non abbiamo neanche preso in considerazione uno dei temi posti sul tavolo: il voler chiamare al femminile il titolo di una donna anche quando la lingua non lo prevede. Secondo noi è un falso problema, inutile come la discussione sul sesso degli angeli.
La femminilità è una questione di cultura e non di lessico.

1. Come affrontate il tema della comunicazione non sessista e rispettosa della dignità e delle specificità delle persone, e con quali strumenti?

Risponde Guido de Mozzi
Chi parla ha iniziato la propria attività nella comunicazione nel 1970, quando i giornali si facevano col piombo. Il cambiamento che ho vissuto in questi decenni è stato quindi abissale, così come è stato grande il cambiamento culturale della nostra gente.
Prima di venire a questa tavola rotonda, ho sfogliato il dizionario che riporta la frequenza delle parole usate nel linguaggio di maschi e di femmine. Ma dopo aver visto la data, che risale a prima che nascesse la maggior parte dei colleghi presenti in sala, ho deciso di esprimere il mio pensiero a braccio.
Noi de l’Adigetto.it non ci siamo mai posti il problema del linguaggio con cui esprimere i contenuti, perché non abbiamo mai fatto distinzione né di religione, né di razza, né – tanto meno – di genere.
L’Adigetto.it ha 13 rubriche, sei delle quali gestite da donne, cinque da uomini e due da entrambi i generi.
Le nostre collaboratrici scrivono con linguaggio femminile, i maschi con un linguaggio maschile. Punto.
Quello che da direttore ho voluto stabilire sono le regole certe riguardanti sintattica, grammatica, analisi logica e, laddove opportuno, anche la fonetica. Le analisi semiotiche e in particolare la pragmatica e la semantica le faccio solo io quando voglio essere certo che i lettori capiscano quello che il giornalista voleva dire. Do molta importanza a punteggiatura, spaziatura e altre formalità utili alla più puntuale e immediata decodifica del testo scritto.
Una lingua è dinamica per definizione e ne teniamo sempre conto.
Diamo spazio anche al dialetto perché è una forma espressiva che, come una lingua vera e propria, esprime situazioni, emozioni, concetti, sentimenti e quant'altro, che solo il linguaggio popolare riesce a esprimere.

Ciò premesso, la redazione de l'Adigetto.it ha sempre ricevuto il plauso delle lettrici. Prima che effettuassimo la serie di interviste sulle Pari Opportunità di cui sopra, avevamo ricevuto una splendida lettera firmata da un gruppo di 37 lettrici che, dopo aver seguito il nostro giornale per alcuni mesi, hanno dichiarato di averlo trovato «interessantissimo per tutte le cose di cui sono stati informati» e ci hanno espressamente commentato: «Grazie al suo giornale, nulla diventa scontato. Abbiamo apprezzato molto lo spazio dedicato alle donne».
Francamente, non abbiamo mai scritto apposta per il mondo femminile. Abbiamo solo fatto il nostro giornale e basta. Ed è così che deve essere: la parità di genere deve essere vissuta dalla lettura integrata di un giornale e non dal testo specifico di questo o quell’articolo.
Abbiamo peraltro dato sempre spazio alle organizzazioni locali che si occupano di parità. Una serie di interviste fatte alle donne trentine più impegnate nella battaglia per la parità, ha ottenuto accessi che sono andati dai 500 ai 5.000 lettori.
Il più cliccato è stato quello che si è occupato della «conciliazione dei tempi di lavoro con quelli della vita», quando il dott. Malfer ha esposto l’impegno della Provincia sul tema (vedi).
Al secondo posto troviamo il progetto «Genere e salute», seguito dal servizio sul Registro provinciale sulle Co-manager (vedi). Nell’articolo avevamo ricordato che questo tipo di solidarietà esisteva spontaneamente nella tradizione trentina dei tempi andati. Se una madre di famiglia aveva problemi di qualche natura, le vicine – amiche o non amiche che fossero – si facevano avanti per spartirsi i lavori, senza che l’interessata lo chiedesse.
L’articolo meno letto – forse merita saperlo – riguardava lo scopo e il funzionamento della Commissione Pari Opportunità. In altre parole, le nostre lettrici e i nostri lettori preferiscono argomenti specifici e non generici o istituzionali.

In verità, però, ci siamo occupati di casi molto particolari della lotta di genere, ma non precisamente trentini.
Quando vennero rapite le 208 ragazzine cristiane dai militanti di Boko Haram, ci eravamo scandalizzati che il movimento femminile trentino non fosse insorto immediatamente. Passò una settimana prima che tali associazioni esprimessero una loro protesta.
Quando vennero rapite le due ventenni volontarie ad Aleppo, in Siria (paese dove dovevamo andare anche noi se non fosse stato per un improvviso incidente di percorso), avevamo chiesto l’immediato intervento della Farnesina e dell’ONU. E quando i presunti animalisti occuparono gli uffici della Provincia per protestare contro la morte dell’orsa Daniza, avevamo chiesto per quale motivo non avessero avuto lo stesso impegno per ottenere interventi concreti a favore delle ragazze rapite.
E, sempre quando il Paese gridava allo scandalo dell’orsa infelice, passò quasi inosservata uccisione delle suore nel Burundi. Solo noi (neanche il Corriere che è nazionale) avevamo mantenuto la testa di pagina a favore delle povere religiose, la cui missione umanitaria viene sostenuta anche dal volontariato roveretano. La sorte dell’orsa era mediaticamente più importante.
Noi quando facciamo il giornale non ci orientiamo al mercato.

Non parliamo per caso di situazioni di disagio femminile nel mondo. Ci siamo stati e abbiamo fatto il nostro lavoro di giornalisti. Merita forse approfondire l’argomento che abbiamo affrontato recandoci nei teatri di guerra dove è impegnato il nostro Paese.
Ovviamente è andato il sottoscritto, direttore della testata, perché non manderò mai nessuno a rischiare la vita al posto mio.
Siamo stati in Afghanistan a trovare i nostri soldati e i nostri carabinieri impegnati a insegnare il diritto di genere e in particolare a contrastare la violenza di genere.
In un paese dove le donne valgono meno dell’uomo per postulato religioso di comodo, i nostri soldati, maschi e femmine che siano, si battono come leoni per la pari dignità delle donne, prima ancora che per questioni di diritto.
Si entra in un villaggio afghano sperduto nella Zeerko Valley per un intervento medico. Una sottufficiale degli alpini entra in una casetta e vede la mamma con due bambini. Il maschietto è bello, pulito, sano e ben pasciuto. La femminuccia è magra, sporca, mal vestita e triste.
«Cos’ha?» - Le chiede la sergente.
«She is a girl» - risponde l’interprete senza aver avuto bisogno di tradurre la domanda alla signora. – «È una femmina.»

In Libano abbiamo visto una bella ragazza italiana sui vent’anni che, operando nel genio, sminava un campo di mine antiuomo sul confine tra Libano e Israele. Una missione rischiosa volta a costruire la pace in un territorio che ha visto spargere il sangue di migliaia di innocenti.
Quando ha finito il suo turno di un’ora le abbiamo fatto una domanda.
«Noi facciamo servizi fotografici alle candidate a Miss Italia e alle nostre soldatesse che rischiano la vita. Sai dirmi qual è la differenza?»
«Non ci sono differenze: siamo donne entrambe.»
Risposta fantastica. Da donna, apunto.

Un giorno una lettrice ci ha scritto per commentare che la divisa non è fatta per le donne. Allora abbiamo citato un esempio che avevamo toccato con mano. Lo si trova in rete tramite questo link.
Ilaria Grosso, ufficiale medico degli alpini, si trovava in un avamposto nel Gulistan, quando sono cominciati a cadere nel piazzale della base colpi di mortaio. Tre alpini sono subito rimasti feriti gravemente e la dottoressa è corsa ad assisterli nonostante i richiami del comandante del distaccamento che la invitava ad attendere la fine del bombardamento. Lei ha continuato lo stesso ed è rimasta a curare i feriti finché non è stato possibile raggiungerli con le ambulanze. Un alpino di questi aveva perso la vita, gli altri due sono stati salvati.
«Era mio dovere, come medico e dome donna, – ci aveva spiegato la maggiore medico Grosso. – Si provi a pensare a quei ragazzi in terra gravemente feriti che sentivano la vita sfuggire tra le mani…
«In quel momento, istintivamente, invocavano la mamma… E una figura femminile è già una mamma… Con o senza divisa. Lì era il mio posto di donna prima ancora che da medico.»
Questa risposta, che ancora ci fa commuover a rileggerla, è l’esempio del perché una donna si meriti ampiamente la divisa.
Anche i commenti arrivati a quell’articolo dimostrano come i lettori siano sensibili alla condizione umana e in particolare al ruolo di quella femminile.

2. Avete affrontato la stessa questione anche per le persone LGBT?
No. Come abbiamo detto, non facciamo distinzioni di sorta.
Se viene calpestato qualche diritto interveniamo, altrimenti continuiamo a considerare tutti sullo stesso piano.

3. Vi ponete la questione di come informare in modo responsabile sui fatti relativi alle violenze di genere?
Sempre. La legge non consente di fare nomi e cognomi di vittime e aggressori, a meno che non sia la vittima a chiederlo, e noi condividiamo il principio.
Recentemente una vittima ci ha chiesto di fare il suo nome, ma l’abbiamo convinta a rinunciare perché – per quanto la società trentina sia fortemente cresciuta in questi ultimi 40 anni – la vittima ne esce sempre perdente. Anche se quasi sempre l’uomo violento viene condannato e nella migliore delle ipotesi la vittima viene anche risarcita, nulla può cancellare il danno fisico dell’aggressione, né tanto meno quello morale subìto nel corso di un processo dove l’imputato, per difendersi, attacca ancora brutalmente la propria vittima.
Per contro, qualcuno ha scritto e pubblicato una dura reprimenda sulla figura di questa donna, come se fosse stata lei a farsi brutalizzare.

4. Avete esempi virtuosi da proporre e raccontare su quanto già state facendo in tal senso?
Noi diamo sempre spazio a vittime che hanno bisogno di sentire di non essere sole e abbandonate. Ci siamo anche mossi personalmente, soprattutto per lamentarci della lentezza della giustizia.
Il Procuratore della Repubblica Giuseppe Amato aveva detto, nel corso di una conferenza, che la cosa più importante per la donna oggetto di violenza è concludere il procedimento penale contro il suo aggressore nel più breve tempo possibile. Questo è l’esempio concreto più bello che abbiamo sentito sulla violenza di genere.
Va peraltro precisato che, se il Procuratore Amato chiude effettivamente le indagini entro l’anno, poi i tempi del processo rimangono troppo lunghi.
Ricordiamo sempre che ogni vittima ha il diritto di sapere in tempi brevi se è stata effettivamente una vittima o se piuttosto il referto non sia stata semplicemente una svista del medico.

In conclusione vogliamo esprimere un'ultima considerazione.
Chi ha letto il nostro intervento avrà avuto modo di vedere come i problemi di genere siano ben diversi da quelli posti sul tavolo dalla peraltro benvenuta Commissione pari opportunità.
E' giusto andare avanti in questa direzione, ma non dimentichiamo che il problema femminile nel mondo è ben altra cosa.
Qui in Trentino possiamo permetterci di fare i fiori, ma la sofferenza di genere, quella vera e autentica, è tutt'altra cosa.