La violenza psicologica/ Seconda parte – Di Nadia Clementi
Parliamo con la psicologa, psicoterapeuta e criminologa, dott.ssa Marika Perli di una forma di maltrattamento troppo spesso sottovalutata
(Vedi prima parte)
Il Gaslighting è una forma di violenza psicologica, in cui l’aggressore pone progressivamente in dubbio la correttezza delle percezioni della vittima fino a renderla insicura della propria capacità di leggere la realtà e dei suoi processi di pensiero annullandone il senso di responsabilità e di efficacia. Si tratta di un fenomeno diffuso? Come si evince?
«Quando parliamo di Gaslighting, ci riferiamo a una forma di manipolazione molto grave e subdola.
«Nella maggior parte dei casi è messa in atto da coniugi o comunque conviventi che a stretto e continuo contatto con la vittima, dopo averla isolata dagli affetti e dalla realtà esterna, iniziano a poco a poco un sottile stillicidio della mente.
«Cambiano versioni di fatti che avevano raccontato in un modo diverso, oppure ritrattano la preferenza per una cosa dicendo di aver sempre mantenuto la nuova versione.
«Narrano episodi di vita aggiungendo situazioni diverse mai accadute, nelle quali ovviamente la vittima se è parte del racconto ha un ruolo perdente.
«Ovviamente questo viene fatto con estrema sicurezza e svalutazione da parte del manipolatore, tanto che la vittima, di per sé già provata quasi sempre da gradi di violenza psicologica più leggera, entra in uno stato di confusione cercando nella sua memoria il ricordo corrispondente, trovando invece qualcosa di diverso.
«Questi comportamenti hanno come esito quello di far pensare alla vittima di essere pazza, di alterare la realtà e di non ricordare più con lucidità gli eventi vissuti.
«A volte il manipolatore può anche agire sugli oggetti all’interno della casa, spostandoli e poi negando che essi abbiano cambiato posto, creando anche proprio un disorientamento spaziale in chi subisce.
«Forme gravi di gaslighting difficilmente vengono smascherate perché la vittima non solo non ha molti riferimenti esterni che la possono aiutare a far luce su queste manipolazioni, ma anche le condizioni di fragilità psicologica in cui si trova, rendono più facile credere a quanto le viene detto dal partner che dar credito alla sua memoria, inoltre il tentativo di perorare la causa del proprio ricordo rispetto a quello del partner potrebbe innescare ulteriori aggressioni verbali o fisiche.
Fortunatamente, manipolazioni così gravi non sono molto diffuse se non all’interno di coppie fortemente patologiche.
«Possono sicuramente esistere episodi tipici del gaslighting in situazioni di violenza psicologica, come far sentire paranoica la moglie che ha trovato prove di tradimenti!
«Come dicevo, per la vittima non è facile rendersi conto di essere vittima di questa forma di abusi, a volte accade che giungano in terapia persone preoccupate per problemi di memoria, dicono di ricordare le vicende in modo sbagliato o di accusare il partner di cose non vere.
«Qui nell’anamnesi del soggetto si può scorgere una problematica di violenza psicologica e quello che si consiglia di fare come semplice esercizio, è di annotare gli episodi in un quaderno nel momento in cui vengono vissuti o raccontati una prima volta e poi confrontati con le versioni successive.
«Questo può essere un primo semplice passo di consapevolezza verso il fatto che ciò che non va non è la memoria della vittima, ma quello che accade nella relazione.»
Perché secondo Lei le vittime dei manipolatori non riescono a reagire denunciando chi fa loro del male?
«Come sopra descritto subire violenza mette la vittima in uno stato di paura e ansia continua, il senso di incapacità e la convinzione che sia lei ad essere sbagliata rende molto difficile la consapevolezza di essere in realtà una vittima e quindi il fatto che ci sia una situazione da denunciare o qualcosa per cui chiedere aiuto.
«Se ritengo di meritarmi ciò che subisco, in quanto l’ago che misura la mia autostima non dà più segni di vita, non solo provo profondo senso di colpa per ciò che vivo, ma temo anche di sentirmi nuovamente accusare di meritarmi la situazione in cui mi trovo.
«L’immagine che abbiamo del nostro aguzzino è quella della persona fantastica che abbiamo conosciuto e che ci ha reso tanto felici all’inizio della storia e spesso la convinzione che questo sia solo un momento passeggero e che noi, con la nostra pazienza e sudditanza lo faremo tornare quello di prima allontanando l’idea di reagire o di denunciarlo.
«A volte non si denuncia per paura, se la donna non ha un posto dove andare, non ha un lavoro e dei figli da gestire, affrontare la rabbia che si scatenerà dopo la violenza fa paura.
«Temiamo il giudizio degli altri, quello che penseranno i vicini o i nostri familiari che spesso sono all’oscuro di tutto, in fondo siamo la cultura del i panni sporchi si lavano in casa.
«Se l’aguzzino è anche il padre dei nostri figli anche questo può contribuire a farci sentire in colpa nel decidere di agire con una denuncia e affrontare anche le conseguenze future.
«Purtroppo le donne vengono lasciate ancora troppo sole ad affrontare situazioni pericolose e credo che non solo gli organi competenti, le associazioni e altro potrebbero fare di più, ma anche noi come donne, uomini, sorelle, madri, amiche, amici, possiamo fare molto di più per le persone che sappiamo essere vittime di violenze.»
Come reagire alla violenza psicologica e come uscirne?
«Una delle cose da non fare è quella di rispondere con la stessa modalità: se lui ci offende, offenderlo a nostra volta, alzare la voce allo stesso suo modo o essere sarcastici come lo è lui.
Pensare che urlargli tutta la nostra rabbia e sottolineargli tutte le sue mancanze, menzogne e arroganze serva a farci ottenere qualcosa, è sbagliato.
«Se lui ci denigra e ci svaluta, fare altrettanto pensando di ferirlo o di far sì che veda la squallida persona che è, non è un’azione che porta risultato.
«Lui non ha messo in gioco i propri sentimenti o emozioni nella relazione, perché come abbiamo detto, il narcisista non prova empatia, non riesce e non è interessato a mettersi nei panni nostri, la nostra sofferenza o quella dei nostri figli non gli provoca alcuna emozione, per cui qualsiasi tentativo in questa direzione è destinato a fallire.
«Le nostre esplosioni di rabbia e disperazione servono a renderci ancora più deboli e vulnerabili ai suoi occhi, averci creato delle reazioni tanto forti, lo fa sentire importante.
«Noi in tutta questa sofferenza mettiamo la nostra affettività e questo ci rende più umani ma più fragili e destinate a perdere contro chi non prova alcuna emozione.
«L’unica via d’uscita a tutto questo è attuare il no contact: azione che ha un’unica modalità di esecuzione: metterlo fuori dalla nostra vita senza se e senza ma.
«NO incontri, NO messaggi, NO chat, NO telefonate, NO richieste di info tramite amici comuni, NO controllare il suo profilo social. NO contact significa lui non esiste. Non c’è spazio per le mezze misure.
«Ogni volta che interrompiamo il no contact ci ritroviamo più fragili a ricominciare il tutto, avendogli dimostrato che se lui insiste o ci cerca in continuazione noi alla fine cediamo.
«All’inizio dell’allontanamento ci sembrerà di impazzire e ci mancherà il respiro all’idea di resistere una sola ora in più senza controllare se ci ha cercate o se ha aggiornato il profilo social e questa prima fase è come tutte quelle di astinenza, la più difficile.
«Man mano che i giorni passano, iniziamo a riempire il nostro tempo con altri pensieri e interessi, a rivedere qualche amica, a prenderci cura di noi e piano piano liberando quello spazio diventa possibile riprenderci cura di noi.
«Può essere utile iniziare il no contact quando magari siamo partite per una vacanza, o siamo in viaggio per lavoro, questo aiuterà a distrarci e a non cercare continuamente la sua presenza fisica o virtuale.
«Il consiglio che posso aggiungere è quello di non attuare il no contact come una sfida “ti faccio vedere che riesco a stare senza di te” o peggio “vedrai quanto ti manco”, perché questo gioco stuzzica molto la modalità sfida del manipolatore, invece meglio comunicare la cosa come qualcosa che facciamo per noi, ma non contro di lui o se i rapporti sono di tensione, bloccare il numero e smettere di avere contatti senza giustificazioni.
«Da questa azione forte che facciamo per salvarci dalla relazione malata, non dobbiamo attenderci delle reazioni. Lo ripeto, non è questo che si vuole ottenere, ma un vero e proprio allontanamento del manipolatore dalla nostra vita.
«Anzi dobbiamo diffidare di qualsiasi reazione, in quanto il manipolatore, proprio per la sua modalità tende in alcune fasi, quando vede che lo stiamo sganciando realmente, a diventare ancora più subdolo: potrebbe fingere di voler tornare sui suoi passi, illudendoci che ci ama ancora, che vuole ricostruire una relazione con noi. Vi può promettere che andrà in terapia, ma che nel frattempo vuole frequentarvi, voi accetterete, lui non andrà mai in terapia e voi vi ritroverete nelle sue sgrinfie violente nuovamente.
«Molto spesso ricevo richieste da donne che si trovano a condividere i figli con questi compagni violenti e gli impegni genitoriali. Questo ovviamente rende impossibile il no contact puro. Quello che di solito consiglio è quello di mantenere le risposte su un piano di informazioni che riguardano il figlio, senza aggiungere informazioni che riguardano noi stesse, la nostra vita o i nostri bisogni.
«Domande che non implicano coinvolgimento, attacchi, rabbia, sarcasmo o compassione. Solo informazioni che riguardano il figlio.
«Ovviamente questo non deve avvenire come se fossimo arrabbiate o offese, perché ciò fa sentire importante e vincente il narcisista e lo farà tornerà all’attacco.
«Ovviamente il no contact può essere un primo passo che possiamo fare, magari supportate da un’amica che ci vuole bene o da un parente, ma uno step spesso necessario da affiancare è proprio quello della terapia.
«Uscire da una violenza richiede tempo e rielaborazione.
«Riprenderci in mano la nostra vita è un nostro diritto e dovere in nome di quella unicità che ci rende straordinari, a prescindere da come siamo arrivati fin qua.»
Come si possono provare le violenze psicologiche?
«Qualora ci fosse bisogno di dimostrare le violenze psicologiche, per una denuncia o per un processo, se anche possono sembrare più difficili da documentare di quelle fisiche in quanto non lasciano dei segni visibili, è possibile farlo.
«Da una parte possiamo utilizzare degli apparecchi per registrare le eventuali telefonate violente o anche le discussioni che avvengono con il manipolatore.
«Possiamo salvare i messaggi qualora abbiano un contenuto aggressivo, denigratorio o svalutante.
«Sicuramente per farsi consigliare sulle modalità con cui raccogliere in maniera corretta questo materiale per poi poter essere utilizzato in sede legale è meglio contattare un avvocato, che saprà darci le indicazioni esatte.
«Per quanto riguarda l’area psicologica clinica, sicuramente dobbiamo sottoporci ad un colloquio con un professionista che potrà attraverso il nostro racconto, con i limiti che questo può avere, raccogliere gli indicatori della violenza sotto forma di ansia, tensione, depressione, stress ecc. Inoltre è possibile eseguire dei test che possono darci delle indicazioni sullo stato psicologico in cui la vittima si trova.
«Alcuni Centri anti violenza usano come screening anche dei semplici questionari.»
A chi devono rivolgersi le vittime di violenza psicologica?
«Se pensiamo di essere vittime di violenza psicologica, essendo un reato è fondamentale informare di quanto stiamo subendo le autorità competenti, affinché possano fare gli interventi del caso.
«Possiamo anche chiedere sostegno ai Centri anti violenza nati a tale scopo in diverse città italiane. Possiamo andare da uno psicoterapeuta per un sostegno psicologico e un percorso riabilitativo.
«Possiamo chiedere un parere professionale legale qualora ci siano figli minori o altre situazioni che devono essere eseguite a norma di legge.
«Tutto il sostegno che possiamo ricevere da parte dei nostri parenti e amici è di grande aiuto, in queste fasi di consapevolezza e di cambiamento, sentirsi amate, aiutate, fa la differenza nel riuscire ad allontanarsi definitivamente dal partner violento.»
Qual è il percorso terapeutico che può seguire una persona vittima di abusi psicologici?
«Un percorso terapeutico a prescindere dall’approccio può essere utile.
«Credo sia importante trovare quello che fa al caso nostro, in base alle caratteristiche personali, alle aspettative che abbiamo nei confronti della terapia e questo è possibile solo ad personam, incontrando il terapeuta e facendosi spiegare qual è il suo approccio clinico.
«Sicuramente mi sento di consigliare l’ipnosi Ericksoniana che è la mia specializzazione, un approccio che ha come base l’empatia con il cliente e questo aiuta molto nei casi di violenza.
«Un altro strumento molto utile è l’EMDR un approccio terapeutico che utilizza i movimenti oculari. L’EMDR è anche utilizzato negli interventi di soccorso per le vittime di catastrofi, data una straordinaria efficacia sui traumi e disturbo post traumatico da stress.»
La vittima riuscirà un giorno a perdonare se stessa per essere rimasta intrappolata in questo meccanismo perverso?
«Credo profondamente nelle potenzialità dell’essere umano e soprattutto in quelle delle donne!
Penso che con un percorso adeguato e non intendo solo terapeutico, ma anche di vita, la vittima possa superare quanto ha vissuto.
«L’essere umano è straordinariamente plastico, abbiamo una capacità di cambiamento molto più veloce di quella che ci concediamo.
«Per abitudine/limite culturale lasciamo andare quello che ci ha fatto soffrire molto lentamente.
«Spesso anche quando siamo già in nuove situazioni e tutto intorno ci dice che siamo emozionalmente altrove, che siamo già diventati altro da quella sofferenza, noi continuiamo a stare in quel dolore. È come essere già risorti, ma continuare a vivere nel sepolcro.
«Stimolo sempre le persone che hanno subito violenza a pensare che se ci è stato tolto tanto sul piano emotivo, è perché avevamo molto e questo molto se lo abbiamo già posseduto, niente ci impedirà di riaverlo.
«Se comprendiamo che la persona con cui abbiamo avuto a che fare è un soggetto patologico e il nostro errore è stato relazionarci con lui come se lui fosse sano, non c’è nulla di cui ci dobbiamo perdonare.
«Noi abbiamo vissuto, amato, abbiamo creduto nell’altro, siamo state noi stesse.
«Non ci dobbiamo scusare per questo.
«Dobbiamo tornare a prenderci cura di noi, ad amarci e a fare tesoro della nostra esperienza come per tutte le esperienze della nostra vita.»
La violenza psicologica è un fenomeno prettamente femminile oppure vi sono anche casi in cui è l’uomo a subirla? In questo caso è più difficile per la vittima ricevere aiuto?
«La ringrazio per questa domanda, in quanto nell’articolo mi sono sempre riferita a una vittima donna e ad un carnefice uomo. La scelta è stata fatta in questa direzione per rispettare le percentuali reali che vedono ricalcare questa situazione.
«La domanda mi dà appunto la possibilità di parlare e sottolineare come esista un sommerso di violenza subita quasi completamente nel silenzio da parte di uomini per opera delle donne, della quale ho estremo rispetto e attenzione, tanto che i miei corsi sulla dipendenza affettiva sono sempre aperti ad entrambi i sessi.
«In una società che si muove ancora molto per stereotipi, non è facile per l’uomo denunciare la violenza subita e far emergere una problematica dove lo vede vittima.
«Indagini effettuate riportano che la donna sottopone a violenza psicologica l’uomo attraverso umiliazioni e insulti, minacciano suicidi o autolesionismi come conseguenze di eventuali comportamenti, tenendoli in uno stato di ansia e ricatto costante.
«Le donne li denigrano per essere senza lavoro o per avere stipendi più bassi di altri uomini di conoscenza comune. Vengono derisi per difetti fisici.
«Queste quotidiane violenze creano negli uomini la stessa sofferenza provata dalle vittime donne: crollo dell’autostima e del senso di autoefficacia, ansia, insonnia, dimagrimento e disturbi della sfera sessuale.
«Se le donne vittime di violenza hanno talvolta la difficoltà di essere credute soprattutto quando la violenza si perpetra all’interno di situazioni che apparentemente sembrano serene, per l’uomo la situazione diventa quasi impossibile se non paradossale, qualora cerchi di mostrarsi vittima.
«C’è un ulteriore capitolo di violenze sulle quali volevo porre l’attenzione che molto spesso vengono attuate dalle donne senza che per l’uomo ci sia possibilità di difesa.
«Sono di due categorie: una riguarda inventare violenze subite anche con denunce per ottenere l’allontanamento del coniuge in tempi brevi o altri vantaggi da una eventuale separazione e l’altra usare i diritti che questi padri hanno sui figli come oggetto di ricatto e di concessione in funzione dei loro comportamenti.
«Con i tempi che cambiano, l’emancipazione della donna, sicuramente la violenza con vittime maschile sarà destinata ad aumentare e sarà necessaria una presa di coscienza della problematica e di possibile aiuti concreti da poter realizzare.»
Sulla violenza alle donne se ne è parlato molto, secondo la Sua esperienza cosa ancora si può ancora fare per arginare il fenomeno?
«Parlare del problema è sicuramente un primo passo, il primo dei tanti necessari per mettere mano ad una situazione di cui si sta prendendo coscienza e che non sembra destinata a rientrare spontaneamente.
«Molte donne subiscono violenza in silenzio, all’interno di mura a volte pure dorate, dove insospettabili uomini infliggono sofferenze a mogli e figli senza che all’esterno, per le difficoltà che abbiamo già descritto, arrivi alcun segnale di ciò che accade.
«Proprio perché spesso, la richiesta di aiuto non ha la forza di farsi sentire, c’è bisogno che gli interventi che vengono fatti, siano non solo per arginare la violenza una volta che è accaduta, ma anche e soprattutto per prevenirla.
«Quindi un intervento su due fronti: preventivi/educativi prima e di supporto/ aiuto sia per la vittima che per il carnefice una volta che la violenza si è manifestata.
«Educazione al rispetto, al riconoscimento del pari valore e delle esigenze ed emozioni dell’altro.
«Combattere gli stereotipi del maschio forte che deve sottomettere la donna e le varie declinazioni sul tema maschilismo.
«È importante lavorare costantemente dall’infanzia, educando i bambini ai no e all’accettare che a volte nella vita le persone possono scegliere altro da noi, anche quando non è ciò che desideriamo. Dobbiamo crescere figli che abbiamo un’autostima in grado di superare, una volta adulti: separazioni, tradimenti, che sappiano dialogare laddove le cose non vanno come si vorrebbe.
«Dobbiamo trasmettere a uomini e donne che le relazioni e soprattutto quelle amorose sono situazioni meravigliose e preziose della vita e per questo vanno anche vissute con responsabilità, valutando a chi facciamo il dono di noi stessi, soprattutto quando questo dono lo facciamo legalmente contraendo un matrimonio, o avendo dei figli.
«Troppo spesso ancora oggi, si sceglie di avere dei figli per lo status di donna/famiglia completa che la maternità rappresenta o per scongiurare il tempo scandito dall’orologio biologico che detta legge nel corpo della donna, ignorando situazioni di violenza già in atto che con la nascita di un figlio andranno quasi sempre a complicarsi.
«Accanto ad un progetto educativo non può mancare la creazione di strutture a sostegno di chi la violenza la subisce e anche di centri di aiuto per chi la mette in atto, che ha parimenti un problema da risolvere.
«È importante che le istituzioni continuino a fare la loro parte mettendoci a disposizioni leggi contro la violenza che veramente sostengano e proteggano chi si espone denunciando.
«Noi cittadini, nel frattempo, ci impegneremo dalla nostra, seriamente.»
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dott.ssa Marika Perli - [email protected]