Michela Fontana, «Nonostante il velo» – Di Daniela Larentis
La scrittrice milanese ha vissuto in Arabia, esplorando dall’interno la società saudita: ha incontrato moltissime donne, esperienza da cui è nato un libro – L’intervista
Michela Fontana e Luciana Grillo.
Ci sono donne che è bello incontrare, ascoltare i loro racconti e la loro visione del mondo è un’esperienze arricchente da tanti punti di vista: Michela Fontana, autrice di «Nonostante il velo» (Morellini editore, disponibile anche in versione eBook, edito da Vanda Publishing) è una di queste.
Lo scorso 26 febbraio è stata ospite di un incontro organizzato in collaborazione con Soroptimist International club di Trento presso il Bookstore Mondadori di via San Pietro a Trento, presentato dalla giornalista Luciana Grillo, titolare per questa testata della rubrica settimanale «Letteratura di genere», seguitissima dal pubblico non solo femminile; anticipiamo che la sua recensione del volume uscirà il 21 marzo.
Giornalista e saggista milanese, Michela Fontana ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita.
Il suo libro «Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming» (Mondadori, 2005), tradotto in francese e inglese, ha vinto il «Grand Prix de la biographie politique» nel 2010.
Ha inoltre pubblicato «Percorsi calcolati» (1996) e «Cina, la mia vita a Pechino» (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.
Seguendo il marito diplomatico, ha trascorso due anni a Riad, in Arabia (dal 2010 al 2012), durante i quali ha avuto modo di esplorare dall’interno la società saudita; ha conosciuto molte donne, con le quali è riuscita a creare un rapporto umano basato sulla stima e sulla fiducia reciproca: attiviste, donne d’affari, studentesse, giovani professioniste, semplici madri e mogli.
E proprio da queste frequentazioni nasce questo libro, in cui vengono messi in luce non solo i sentimenti delle donne, ma le contraddizioni e la complessità di un mondo che percepiamo diverso dal nostro e che fatichiamo a comprendere (lo conosciamo solo attraverso stereotipi).
Un mondo in cui, a ogni modo, le donne vivono una vita molto diversa dalla nostra in termini di libertà personale, un luogo in cui qualsiasi donna occidentale faticherebbe ad adattarsi.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarla e di porgerle alcune domande.
Il libro raccoglie una serie di ritratti di donne saudite, come è nata l’idea di presentare delle storie che potessero testimoniare la condizione femminile in Arabia Saudita?
«Mio marito si è recato in Arabia Saudita per lavoro, l’ho seguito con il desiderio di conoscere il mondo femminile saudita, l’unico entro il quale mi sarei potuta muovere, là c’è la segregazione di genere; avevo voglia di conoscere il Paese e quindi ho colto al volo quest’occasione.
«In Arabia Saudita la condizione della donna è molto particolare, è uno dei Paesi al mondo che ha le leggi peggiori in materia di segregazione di genere e in generale di limitazione della libertà delle donne, questo secondo tutte le statistiche internazionali, anche se adesso ci sono delle riforme in atto.»
Qual è la tipologia delle donne che lei ha intervistato?
«Volevo sapere chi sono, cosa fanno le donne saudite di diverse estrazioni sociali; là è più facile chiaramente incontrare donne benestanti, donne che hanno viaggiato e che conoscono maggiormente il mondo.
«Ho intervistato donne di tutti i tipi, non solo attiviste, ma donne d’affari, studentesse, giovani professioniste, islamiste radicali, scrittrici, moglie e madri di famiglia.
«Molte di loro conoscevano l’inglese, in seguito una mia amica, non attivista, mi ha fatto lei da interprete. Aiutata dalle stesse donne sono quindi riuscita a parlare con donne di diverse classi sociali.»
Dal punto di vista metodologico come ha condotto la ricerca?
«Mi ero preparata prima di partire, studiando a fondo la storia del Paese. Dopodiché ho voluto iniziare dalle donne che avevano fatto qualche tentativo per ottenere il diritto a guidare l’automobile nel 1990, donne attiviste che adesso avranno circa 50-60 anni.
«Erano in un certo senso le donne più facili da raggiungere, in quanto parlavano in inglese, le più aperte al mondo occidentale, anche se ci è voluto comunque un po’ di tempo per instaurare con loro un rapporto di fiducia.
«Sono poi state le stesse donne ad aiutarmi a incontrare altre donne, quindi è stato anche il caso che ha favorito certi incontri. È stata quindi un’introduzione nel mondo femminile per mezzo delle donne.»
Nella quotidianità come vive una donna qualunque in Arabia Saudita, quali sono le principali limitazioni e gli obblighi a cui deve sottostare?
«Ci sono un’infinità di limitazioni. Le donne devono indossare l’abaya, un leggero camice nero che ricopre il corpo fino ai piedi, il niqab, la mascherina che lascia scoperto solo gli occhi, o il velo, a seconda di quanto è conservatore il marito e la famiglia.
«Vige la segregazione di genere, le donne e gli uomini devono stare separati, anche in casa: a parte i parenti molto stretti, vivono divisi, c’è una zona della casa abitata dalle donne e un’altra abitata dagli uomini.
«Le donne, inoltre, non hanno libertà di movimento, se il guardiano è benevolo le lascia uscire, naturalmente accompagnate, altrimenti stanno a casa.
«Nonostante queste leggi ferree ci sono tuttavia delle modifiche in atto, per esempio da poco è stato concesso alle donne di poter guidare (nel 2018), una riforma ad alto valore simbolico.
«Occorre dire che proprio in questi giorni è stata nominata la prima ambasciatrice donna dell’Arabia Saudita, la principessa Rima bint Bandar al Saud, prossimo capo dell’ambasciata saudita negli Stati Uniti, ciò rappresenta una grande apertura».
Può condividere con noi alcuni pensieri riguardo al severo controllo della polizia religiosa in merito alla negazione di determinate libertà alle donne?
«La polizia religiosa era terribile, pericolosa, si poteva essere arrestate solo per aver rivolto la parola a un uomo, una donna che andava a finire nelle grinfie della polizia religiosa era disonorata e spesso veniva abbandonata a se stessa anche dalla propria famiglia.
«Mi sono state raccontate cose terrificanti a riguardo. Per esempio, una delle due delle donne che ho intervistato e che si era battuta a suo tempo per il diritto alla guida, un mese prima che concedessero il diritto a guidare è stata imprigionata e non se ne sa più niente.»
Ci sono delle aperture in atto?
«Ci sono delle aperture oggettive, ma occorre porle in atto insieme al governo, pena sparire in qualche prigione senza lasciare traccia di sé, diventando invisibili.
«È un governo che ha il pugno di ferro, non paragonabile ai nostri. Il giovane erede al trono Mohammed Bin Salman, figlio di re Salman e vero ispiratore delle recenti politiche del governo saudita, ha ideato insieme al padre un piano che prevede una serie di riforme sociali, fra le quali alcune riguardano proprio le donne.»
Michela Fontana con Daniela Larentis.
Le donne, secondo lei, sono inconsapevoli o rassegnate?
«Dipende dalle loro storie, molte sono rassegnate, altre non possono fare altro che rassegnarsi. È chiaro che anche le donne che non lo sono di per sé e che mettono in atto qualche forma blanda di lotta – le lotte sono sempre all’acqua di rose rispetto alla nostra storia europea – devono in qualche modo stare attente, hanno un coraggio limitato, in quanto il prezzo che pagano è sempre molto alto (se ne devono andare via dal Paese, non possono più rimanere).»
Chi è il guardiano?
«Il guardiano è il tutore legale della donna, prima il padre, poi quando si sposa il marito, se divorzia dal marito torna ad esserlo il padre, oppure il figlio maschio o il fratello.
«Se per qualche motivo non esiste più nessun parente maschio allora lo diventa un giudice islamico.
«La donna non può decidere di se stessa, come da noi un bambino.»
Che cosa ha rappresentato per lei vivere la condizione di donna straniera in un Paese ai nostri occhi tanto intransigente?
«All’inizio è dura, occorre abituarsi all’idea di indossare l’abaya ogni volta che si esce; io all’inizio sbagliavo sempre le entrate, mi cacciavano via perché si doveva rimanere rigorosamente separate dagli uomini.
«Poi ci si abitua, io da subito ho assunto comunque un atteggiamento da esploratrice, ero lì per cercare di capire le tradizioni del Paese, volevo scrivere un libro, e quindi ho cercato di adattarmi di buon grado.
«È chiaro che ci sono infinite limitazione ma devo anche dire che io ero privilegiata, vivevo in una certa parte della città, avevo una certa protezione.»
Un’ultima domanda: che cosa le ha donato questa esperienza?
«Mi ha donato il rapporto con le donne. Tutte le donne che ho intervistato, tranne una che non compare nel mio libro, mi sono tutte piaciute per un motivo o per l’altro.
«È stata un’esperienza intellettuale-culturale ma anche profondamente umana. Alcuni problemi delle donne rimangono comunque simili in tutto il mondo, posso dire in sintesi che quest’esperienza mi ha arricchita molto.»
Daniela Larentis – [email protected]