La violenza che respiriamo – Di Giuseppe Maiolo, psicanalista
Il rischio più grave è quello di pervenire ad una visione normalizzata della violenza
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Tutta la violenza che respiriamo ogni giorno, da quella comune a quella del terrorismo, sta mettendo a dura prova la nostra psiche.
È un continuo stato di allarme che ci assale e una ininterrotta dimensione di angoscia che le immagini di morte e di devastazione stanno producendo in noi.
In particolare gli atti terroristici di questi ultimi tempi portano a galla le nostre assolute fragilità e un profondo senso di impotenza.
Non vi è dubbio che questo denso terrore sia voluto proprio da quel terrorismo che si fonda sull’estremismo paranoico del fondamentalismo religioso, ma la consapevolezza di questo stato di cose, caso mai, aumenta la nostra prostrazione e fa emergere limitatezza delle nostre risorse.
Per arginare quell’acuto di terrore che ci sta invadendo, chiediamo aiuto alla psicopatologia.
E anche qui sapere che spesso si tratta di un fanatismo allucinato che altera la mente di alcuni individui, ci indica come sia angosciante il momento che stiamo vivendo. Perché non è per nulla rassicurante sentirsi tenuti in scacco dalla follia.
Così come non tranquillizza più di tanto il fatto che dalle vite comuni di quei ragazzi che hanno seminato il terrore su un treno o aperto il fuoco contro dei bambini in un centro commerciale, non emergano relazioni significative con la Causa islamica, quanto piuttosto profondi disagi psichici o sociopatie conclamate.
Ci serve solo per cercare di intravvedere una possibile spiegazione alla violenza che però, nel mondo globalizzato, sembra non avere più argini etici, né freni sociali.
Non possiamo fare a meno di provare sgomento e orrore nel sapere che un camion si è lanciato a valanga contro un gruppo di persone in festa, ma non viene in mente alcuna possibile motivazione a quel gesto se non quella di profondi abissi di odio che contiene la natura umana.
Impossibile, pertanto, non sentirsi alle corde, privi di uno sguardo di fiducia nell’esistenza.
E allora assistiamo ad una sorta di dicotomia del comportamento collettivo: o la paralisi del pensiero incagliato nell’angoscia e nello sconforto più totale, oppure l’anestesia del sentimento e la riduzione, se non la soppressione, della memoria degli eventi e delle stragi.
O depressi e quasi completamente assorbiti dalla nostalgia di un passato felice perduto per sempre, oppure, dimenticati rapidamente gli eventi perché sommersi da un’escalation di fatti e immagini sempre più sconvolgenti, ci ritroviamo come sotto l’effetto di un anestetico che attenua o ci fa scomparire totalmente il dolore.
Chiediamoci infatti quanto rimane dentro di noi delle stragi che ci sono passate accanto in questi ultimi mesi, e quante di quelle emozioni violente siamo riusciti a trasformare e metabolizzare.
Forse ci accorgiamo che è necessario fare uno sforzo per ricordare Chalie Hebdo, o Dacca oppure Orlando.
Bombardati da immagini di violenza reale e virtuale veicolate da interminabili fiction con esplosioni, sparatorie e stragi, la coscienza si difende rimuovendo e allontanando il ricordo: non elabora ma cancella, o almeno ci prova.
E per quanto legittimo e naturale possa essere il nostro sistema di difese, è possibile leggere altri significati e altre motivazioni.
Prima di tutto la mancanza di un tempo e di uno spazio per la riflessione: in assenza di queste categorie ci diventa difficile elaborare il lutto e trasformare la sofferenza.
Il rischio più grave è quello di pervenire ad una visione normalizzata della violenza.
In secondo luogo, contrariamente allo sconforto profondo di chi è in guerra e ha un nemico visibile da combattere, ma mantiene viva la speranza di sconfiggerlo e uscirne vincitore, in questo momento storico, appesantiti dalla sfiducia, prevale in tutti noi la mancanza di una visone prospettica rassicurante e un perenne stato di allarme.
Il disorientamento profondo che ne deriva è dato dal non riuscire a vedere gli occhi del nemico, né immaginare dove si trova.
Oppure, contagiati da un pensiero paranoico, lo intravvediamo dappertutto.
Questo fa crescere a dismisura quel senso di impotenza collettiva che ci sta sbaragliando, ma che, per certi versi, un po’ tutti abbiamo contribuito a produrre con l’incremento esasperato di individualismo e competizione parallelamente alla distruzione di valori condivisi come la solidarietà.
Giuseppe Maiolo
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