Siamo tutti alla ricerca di un barlume di felicità
Daniela Larentis: «Poco importa se durante il percorso s’inciampa. L’importante è rialzarsi e continuare a camminare senza retrocedere mai»
È difficile avere una visione pacifica del mondo, quando basta indugiare solo per qualche istante, innanzi al televisore, per assistere a brutali e fugaci scene di guerra, a qualche raccapricciante fatto di cronaca nera o semplicemente a improbabili quanto mai noiose diatribe, non solo fra i politici di turno, ma addirittura fra persone invitate allo scopo, in trasmissioni studiate a tavolino.
Non che io non sia favorevole a un vivace dibattito, a un colorito scambio d’opinioni oserei definire “terapeutico” (un sano battibecco può far bene alla salute, talvolta, nei casi in cui non avviene l’esatto contrario), né che io sia contraria a una accesa forma di incontro senza veli né formalismi (ben sapendo che lo scontro altro in fondo non è, quando non sfocia in maleducazione e allora è tutto un altro paio di maniche).
Ma credo, tuttavia, che qualsiasi tipo di comunicazione sia verbale che non verbale, qualsiasi diverbio, non dovrebbe mai scivolare nello spregio per l’interlocutore.
Per bisticciare, sostanzialmente, ci vuole classe: non è facile farlo nella maniera giusta e se non lo si sa fare è meglio non alzare la voce. E’ meglio lasciar perdere. E respirare.
È altresì più opportuno contare fino a dieci e rimandare l’alterco a tempi migliori, quando il sangue tornerà a pulsare normalmente e quando si sarà in grado di valutare la questione in maniera più distaccata e pacifica.
Solo chi è indifferente innanzi a qualcosa, in fondo, non crea una qualche catena e la stessa cosa vale per gli individui: fra due che si rimbeccano si crea comunque un legame. Che lo si voglia o no.
Le gente ad ogni modo litiga e spesso finisce con l’odiarsi.
Forse che la guerra rappresenti una sorta di legge universale, come sosteneva Eraclito?
Non soltanto gli animali si divorano fra loro, ma ogni cosa, attorno a noi, vive di contrasti.
Per fortuna tutto scorre, «Panta rei» sosteneva il filosofo vissuto a cavallo del VI e V sec. a.C., evocando l’immagine di un fiume che scorre in un continuo divenire. (è suo il pensiero «Non si può entrare due volte nello stesso fiume»). Egli sosteneva che ogni cosa seguisse un ciclo perenne, in continuo movimento.
Fra le tante cose, credeva anche nell’armonia. Un’armonia che si nutre, tuttavia, proprio di contrapposizioni e riportava come esempio quello dell’arco: l’arciere scocca con abilità la freccia e ciò è possibile grazie alla tensione del legno e della corda, alla bravura inoltre dell’arciere che sincronizza le due spinte, quelle due forze contrapposte da cui scaturisce l’armonioso lancio del dardo.
Usava questa metafora per spiegare un’armonia frutto del contrasto, quella che taluni chiamano «armonia degli opposti».
Lasciando stare il filosofo, chissà perché parlando di armonia degli opposti mi vien da pensare alle relazioni amorose.
Molte volte gli opposti si attirano.
Pensando alla fisica non possiamo che ricordare che senza forza di attrazione non esisterebbe neppure la materia.
Nel nostro universo le cariche elettriche dello stesso segno si respingono e quelle di segno opposto si attraggono, ossia la forza di due particelle dotate di carica elettrica può essere di attrazione o repulsione, a seconda che le particelle abbiano cariche di segno opposto oppure uguale.
Ma torniamo ai meccanismi grazie ai quali si subisce il fascino di questa persona anziché di quella.
Non è forse vero che anche in questo frangente gli opposti si attraggono?
In ogni caso non sempre, anche perché nell’attrazione entrano in gioco altri fattori; dipende dal proprio vissuto e dai propri bisogni più profondi e da molto altro, a dire il vero.
C’è a ogni modo chi è affascinato da chi ama comandare e desidera da questi farsi condurre, chi trova compiacimento nel guidare e a sua volta è attratto da chi glielo lascia fare, chi dominante cerca qualcuno simile a se stesso per giocare una partita ad armi pari (o per chissà quale altra ragione).
Potrei continuare snocciolando una lunga serie di tipologie, includendo coloro che nel gioco di coppia si rifugiano, cercando di ricrearlo, nel tipo di rapporto vissuto con la propria madre o con il padre e chi, invece, ne rifugge inconsciamente, desiderando un qualcosa di completamente diverso.
Magari assolutamente contrario. Io non sono una psicologa e non sta a me entrare nel merito, perciò non lo farò. Credo comunque che, sintetizzando al massimo, sia in fondo un problema di chimica.
Certo è che ognuno, in amore e in una qualsiasi altra relazione umana, è alla ricerca di un equilibrio, di un certo non so che in grado di farlo star bene, in armonia con il mondo e ancor prima con se stesso. Perché, per tanto che se ne dica, è l’armonia ciò che si brama maggiormente pur non rendendosene conto (cercando alle volte in modo esagerato e maniacale di combattere il suo opposto, vedi il provocatorio articolo «Non puoi controllare il mondo»).
Un’armonia che talvolta è frutto del contrasto, come sosteneva Eraclito, oppure un equilibrio che scaturisce dalla consapevolezza. O da altro.
C’è chi ha bisogno di scontrarsi per sfuggire alla noia che tutto divora e appiattisce, per sentirsi vivo.
C’è chi non avverte tale esigenza e non ha bisogno di tanti scossoni per ricordarsi di essere al mondo. E’ una questione di temperamento.
L’importante, ciò che è assolutamente irrinunciabile, è il rispetto della propria persona e dell’altro. Sempre. Poi, tutto può essere nella logica dell’amore (e dell’amicizia, che in fondo non è altro che una sorta di amore senza implicazioni sessuali e senza diritto d’esclusiva), sebbene io sia convinta che sia meglio non dominare nessuno né tanto meno farsi dominare.
A ogni modo, ognuno è come è e non ci si può fare niente. C’è chi ha bisogno di catene e continua a crearsene.
C’è chi tenta giornalmente di togliersele e chi non se ne cura affatto.
Siamo nondimeno tutti alla ricerca di un barlume di felicità, di uno scopo il cui raggiungimento ci faccia sentire appagati, in equilibrio con noi stessi e con chi ci circonda, di qualcuno che ci aiuti in questo e con cui condividere non solo il classico piatto di minestra, ma le emozioni, la parte più «viva» e più bella dell’essere uomini (inteso come genere umano).
A tale proposito – e non posso che essere d’accordo con lui, – J. Foster sosteneva che lo «scopo della vita è espandere le proprie capacità e soprattutto la capacità di amare».
Amare noi stessi, amare il prossimo, amare l’ambiente che ci circonda, inclusi gli animali che lo popolano (anche loro hanno diritto a una vita dignitosa e bella).
Amare l’idea di amare. Innamorarsi dell’idea di amare.
Includendo nel conto anche qualche piccola o grande frustrazione, qualche forte amarezza, valutando poi le delusioni come esperienze e non come sconfitte.
Ispirandosi alla Fenice, l’uccello mitologico che dopo la sua morte rinasceva dalle proprie ceneri, occorre guardare sempre avanti, ponendosi nuovi obiettivi da raggiungere. Senza voltarsi.
Poco importa davvero se durante il percorso s’inciampa. L’importante è rialzarsi e continuare a camminare senza retrocedere mai.
Daniela Larentis