Gli iperconnessi – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

I genitori devono negoziare e trovare compromessi con loro: in questo momento sono gli strumenti educativi più utili per far diventare grandi

Tra il preoccupato e l’arrabbiato, molti genitori si chiedono cosa fare con i figli che, ancor più di ieri catturati dai loro dispositivi, passano un tempo infinito a incontrare il mondo delle relazioni virtuali e soprattutto a giocare online.
Si domandano con ansia quale atteggiamento tenere e interrogano gli specialisti su cosa sia giusto fare. Lasciarli continuare in queste pratiche oppure sottrarre loro con la forza i dispositivi?
C’è da riflettere in questo tempo di estese contraddizioni.
Perché sono gli adulti che fino a ieri insistevano sul pericolo dei dispositivi e in questi ultimi mesi hanno rivalutato la tecnologia per lo smart working e la didattica a distanza.
 
Ma sono anche i genitori afflitti dalla paura per questa diffusa iperconnessione dei figli a cui proprio negli ultimi mesi è stato riconosciuto il dovere di stare in rete, «andare» virtualmente a scuola, interagire con prof e compagni e comunicare in forma digitale.
Preoccupati sì, ma pensarli già malati, questi ragazzi, sarebbe un errore. Non sono degli isolati sociali, ritirati nel loro guscio, distanti dal mondo reale.
Potrebbero diventarlo e per questo è giusto chiedersi dove sono.
Ma gli adolescenti iperconnessi vivono semplicemente il loro tempo. Hanno il diritto ad essere connessi e digitare perché il linguaggio che comunicano in prevalenza è fatto più di immagini che verbale.
 
La distanza generazionale tra giovani e adulti adesso, si misura proprio su questo.
Di certo anche la passione, tutta rinnovata da una tecnologia pervasiva, per il net gaming, il gioco in rete, fa vedere quanto è lontana l’odierna adolescenza dall’adultità vera, non solo quella anagrafica.
Non sono più i conflitti tra genitori e figli che tempo addietro laceravano i tessuti relazionali della famiglia, ma segnano la differenza tra le generazioni i profili della quotidianità tecnologica.
Sono i modi con cui il gioco in rete può appassionare e offrire atmosfere e ambienti fantastici, emozioni immediate e adrenaliniche.
In ogni caso sarebbe un altro sbaglio temere che queste diffuse passioni possano produrre in maniera automatica dipendenza.
 
I ragazzi già dipendenti dai videogiochi, o che rischiano, li vedi perché a prescindere dalla compulsione, sono isolati, non hanno amici e nemmeno un profilo su un social.
Giocano per scaricare la loro rabbia che altrimenti può trasformarsi in violenza agita che pure, in qualche caso, diviene manifesta.
Sono i ragazzi arrabbiati quelli che rischiano di più, quelli che hanno accumulato nel tempo e per varie ragioni una quantità notevole di collera malgestita e di sentimenti violenti a cui spesso sono stati costretti ad assistere.
A guardarli bene li ritrovi dentro contesti familiari disarmonici, dove prevale la conflittualità delle relazioni interne.
Togliere loro d’imperio, la possibilità di giocare è rischioso. Molto pericoloso.
 
Meglio rendersi conto della situazione evolutiva di oggi che fa crescere un po’ tutti con meno risorse e i ragazzi faticano a diventare grandi.
Allora si fermano. Si incagliano nelle varie forme di dipendenza quando prevale il vuoto delle altre comunicazioni o è carente la forza degli affetti che sostiene la fiducia e dà sicurezza nel momento in cui si devono sciogliere le cime per salpare in mare aperto.
Il «da farsi» degli adulti è prima di tutto quello di rendersene conto.
Poi non colludere con l’universo giovanile, non essere pari con loro, amici e compagni di avventura, ma offrire differenze significative che permettano un confronto costruttivo tra le generazioni.
Dare sponde, regole e limiti e più ancora costruire con loro ponti, mediazioni.
Negoziare e trovare compromessi sono, in questo momento, gli strumenti educativi più utili per far diventare grandi.
 
Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento - www.officina-benessere.it