Siamo come un fiore di tarassaco – Di Daniela Larentis

«Una volta trasformati in soffione ci libreremo nell’aria per raggiungere l’azzurro del cielo»

La Pasqua celebra la risurrezione di Gesù  avvenuta dopo tre giorni dalla sua morte in croce e rappresenta la più importante festività del Cristianesimo, essendo l’evento centrale dei Vangeli (da non confondere con la Pasqua ebraica che commemora invece la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù d’Egitto, avvenuta grazie a Mosè).
Secondo i Cristiani, Cristo attraverso il suo sacrificio ha liberato l’umanità dal peccato originale.
 
Ha vinto quindi la morte, mostrando agli uomini il loro destino, cioè la risurrezione nel giorno finale.
La morte è un evento certo (forse l’unica vera certezza del vivere, paradossalmente) ed è molto difficile accettarla, comunque si dica, anche per coloro che hanno il dono della fede.
Per tutti. Per chi crede e per chi non crede. E rappresenta un problema per chi resta. Mai per chi se ne va.
 
Essa accomuna tutti gli uomini e come diceva Orazio nelle Odi Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres (la pallida morte batte con lo stesso piede alle capanne dei poveri e alle torri dei re).
Rabindranath Tagore, poeta, drammaturgo, scrittore   e filosofo indiano (nonché premio Nobel per la letteratura), vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, scrisse questi bellissimi versi riferendosi a essa, una poesia così delicata e profonda da rendere superfluo ogni commento:
 
La morte non è l’ultima verità.
Ci appare nera come ci appare blu il cielo,
ma non annerisce la vita più di quanto
l’azzurro celeste sporchi le ali dell’uccello.
 
Non desidero affrontare di petto il tema scottante della perdita di un proprio caro.
Qualunque cosa io dicessi risulterebbe comunque troppo o troppo poco.
Troppo perché innanzi a un grande dolore talvolta solo un rispettoso silenzio è in grado di apportare una qualche forma di conforto; qualsiasi parola risulterebbe vuota e priva di significato autentico.
Troppo poco perché chi viene, suo malgrado, toccato da vicino da questo tragico evento sa che non esiste nulla capace di  tradurre un dolore così immenso.
 
Non basterebbero tutte le parole del mondo per descrivere il senso di lacerazione e di smarrimento, il vuoto e l’angoscia provati di fronte alla scomparsa di una persona amata, di un amico.
Certi stati d’animo scavano in noi così a fondo che niente pare possa colmare quella voragine. Solo il feroce battito del nostro cuore straziato a ricordarci di essere vivi. Ancora.
 
Chi non ci è già passato è fortunato, ma questo è un dolore che prima o poi toccherà a ognuno di noi, perché non vi è nulla di così caduco come la vita umana.
Forse solo il fiore di tarassaco, comunemente chiamato dente di leone,  che una volta raggiunta la maturazione si trasforma in soffione e si libra nell’aria per raggiungere l’azzurro del cielo.
 
Racchiude un seme che il vento disperde in un altro luogo per dare vita ad altri meravigliosi fiori, non è forse così anche per noi uomini?
Ma non mi sto riferendo al fatto di generare altri esseri umani, al fatto di mettere al mondo figli!
Alludo alla possibilità di vivere relazioni umane autentiche.
Non siamo anche noi, in fondo, simili ai fiori di tarassaco?
Tutto ciò che siamo stati, che siamo  e che saremo non sarà stato inutile.
Donare se stessi non è mai un gesto sterile.
 
Ogni nostra azione ricade, che lo si voglia o meno, sugli altri esseri umani, semplicemente per il fatto che la vita è fatta di relazioni.
Quello che ogni uomo genera è un effetto domino e anche un semplice sorriso, talvolta,  può cambiare il corso di un’intera esistenza.
 
Attraverso il nostro agire, possiamo quindi migliorare o peggiorare il mondo.
Quando ce ne andremo tutto ciò che saremo stati si disperderà nel vento come quel seme di tarassaco, impiantandosi per sempre nel cuore delle persone con le quali abbiamo interagito e in quello di chi abbiamo amato e di chi ci ha voluto bene. Bucheremo l’azzurro in un ultimo meraviglioso viaggio di luce.
E allora non avremo vissuto invano.
 
Voglio concludere con la bellissima poesia che Eugenio Montale, poeta e giornalista italiano, premio Nobel per la letteratura nel 1975, dedicò alla moglie morta.
Per lui la realtà non era quella che si vedeva con gli occhi e si percepiva con i sensi, ma era qualcosa di misterioso che andava al di là delle apparenze.
 
«Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale» (Eugenio Montale)
«Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.»
 
Daniela Larentis