Ci sono treni che non si possono perdere – Di Daniela Larentis
Certi giovani incoscienti farebbero bene a non disegnare svastiche sui muri delle strade o sulle lavagne e aprissero invece il libro di storia
Ci sono treni che non si possono perdere, come quello di cui parla un recente articolo intitolato «Come prendere il treno della memoria 2014» (vedi), pubblicato lo scorso 4 febbraio e letto da una grande quantità di lettori.
Ci sono cose che è impossibile rimuovere dalla mente, il cui ricordo fa parte del sentire comune, come lo sterminio del popolo ebreo per mano dei nazisti.
A causa del delirio di onnipotenza di un uomo pazzo, o comunque malato, che andava predicando la superiorità della razza ariana, furono uccisi sei milioni di ebrei (non solo, ma finirono nei campi di concentramento anche zingari, testimoni di Geova, portatori di handicap e omosessuali, come è tristemente noto a tutti).
Il Giorno della Memoria, fissata il 27 gennaio, a ricordo dell’entrata delle truppe sovietiche nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1945 e della sua liberazione, è stata scelta come giornata di commemorazione delle vittime del nazismo.
Nella poesia intitolata «Auschwitz» Salvatore Quasimodo, celebre poeta ermetico italiano del Novecento, premio Nobel per la letteratura nel 1959, esprime tutta la sua rabbia nei confronti dei massacri compiuti nei lager tedeschi e uno scorato dolore per ciò che accadde, un eccidio che nessuno può dimenticare.
I toccanti versi descrivono quella pioggia fredda e funebre che batte sui pali arrugginiti e sul filo spinato dei recinti, una scena intrisa di disperata tristezza, in cui non si scorge la presenza né di alberi né di uccelli, nell’aria grigia, dove aleggia nella totale assenza di vita solo una sconfinata sofferenza, un dolore vissuto nel silenzio della memoria.
Quante donne dopo essere state ammassate nelle baracche morirono fucilate o asfissiate, a quanti patimenti furono sottoposte quelle poverette, delle quali non rimasero che le lunghe trecce di capelli chiuse in urne di vetro, «ombre infinite di piccole scarpe e di sciarpe d’ebrei».
Come sulla porta dell’Inferno dantesco, anche all’entrata del campo di concentramento c’era un cartello che indicava che quello era un viaggio senza ritorno, in cui quelle parole «il lavoro rende liberi», mentre dai camini dei forni crematori il fumo usciva in continuazione verso l’alto del cielo, suonava tanto macabro quanto sarcastico.
Un motto che dietro la sua innocua parvenza celava una crudeltà infinita e l’ignobile menzogna di chi pur appartenente all’umanità non aveva nel cuore nulla di umano.
Il poeta attraverso i suoi tristissimi versi invita tutti a non dimenticare, perché solo ricordando si potrà evitare che in un ipotetico futuro un tale abominio possa ripetersi (poesia tratta da «Tutte le poesie» Salvatore Quasimodo – Oscar Mondadori ed. – a cura di Gilberto Finzi).
Auschwitz di Salvatore Quasimodo
Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.
Tu non vuoi elegie, idilli: solo
ragioni della nostra sorte, qui,
tu, tenera ai contrasti della mente,
incerta a una presenza
chiara della vita. E la vita è qui,
in ogni no che pare una certezza:
qui udremo piangere l’angelo il mostro
le nostre ore future
battere l’al di là, che è qui, in eterno
e in movimento, non in un’immagine
di sogni, di possibile pietà.
E qui le metamorfosi, qui i miti.
Senza nome di simboli o d’un dio,
sono cronaca, luoghi della terra,
sono Auschwitz, amore. Come subito
si mutò in fumo d’ombra
il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa!
Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: “Il lavoro vi renderà liberi”
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le docce a gas.
Le troverai, tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.
Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.
Perciò, certi giovani incoscienti, privi di consapevolezza, prima di disegnare svastiche alla leggera sui muri delle strade o sulle lavagne di scuola, sarebbe meglio che si fermassero un attimo a riflette su quei gesti, il più delle volte compiuti solo per mettersi in mostra, e che si dedicassero a qualcosa di più costruttivo e di gran lunga meno pericoloso e offensivo, magari semplicemente basterebbe che aprissero il libro di storia e leggessero le pagine dedicate all’olocausto.
Daniela Larentis
[email protected]