Intervista a Elisabetta G. Rizzioli, 2ª parte – Di Daniela Larentis
Il corposo volume ancora in fieri a cui sta lavorando la storica dell’arte verte intorno a San Michele Arcangelo e altre storie|Arte della Giustizia e Giustizia nell'Arte
Guido Reni, «San Michele Arcangelo» - 1635 - Olio su ormesino, Roma, chiesa di Santa Maria della
Concezione, primo altare a destra entrando, part.
(Link alla Prima parte)
La storica dell’arte Elisabetta G. Rizzioli sta lavorando alla stesura di un corposo volume ancora in fieri che verte intorno a San Michele Arcangelo e altre storie| Arte della Giustizia e Giustizia nell'Arte.
Abbiamo avuto il piacere di intervistarla.
San Michele Arcangelo, riconosciuto dalle tre grandi religioni monoteiste, è una delle figure più conosciute delle Sacre Scritture, ricorre frequentemente nell’iconografia religiosa raffigurato in molti modi…
«L’amplissimo tema di San Michele che esercita la propria veemente autorità di arcangelo vendicatore e giudice nella lotta contro il male, asseconda il giudizio di Dio, e uccide l’orrido Satana in forma di drago o in sembianze a vari livelli (semi)umane è assai conosciuto; rappresentato come figura angelica personale orchestra combattendo la sciarada storico-simbolica della coreografia apocalittica, essendo di grande rilievo per entrambi i Testamenti e per la scenografia dantesca («Non è sanza cagion l’andare al cupo: / vuolsi ne l’alto, là dove Michele / fé la vendetta del superbo strupo»: Inferno, VII, 9-12). Altrettanto diffuso è quello dell’arcangelo che lotta contro ‘il bel’ Lucifero, prima della caduta definitiva, cacciato dal cielo per orgoglio o per lussuria - argomento interpretato per la prima volta dai padri della chiesa del V secolo - e gli angeli ribelli, motivo quest’ultimo derivante dalla cacciata del drago e dei suoi angeli, talora spiriti grotteschi precipitanti nel bestiario dell’abisso di fuoco, narrato nell’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia compilato dall’evangelista Giovanni sull’isola di Patmo ove era stato confinato, che in modo tanto rigoroso quanto fascinoso disvela profeticamente il senso della storia umana.
«In corrispondenza dell’ultimo periodo dell’età patristica e dell’inizio dell’alto Medioevo nasce e si sviluppa altresì la tradizione musulmana nella quale il diavolo ha un posto rilevante analogamente alle due credenze religiose a cui l’islam si rapporta, il giudaismo e il cristianesimo. In essa il principio fondamentale è dato da uno stretto monoteismo e da una totale sottomissione alla volontà divina; verso il 621 a seguito della rivelazione avvenuta con il profeta Maometto, l’islamismo si diffonde nel Medio Oriente e nel Mediterraneo influenzando consistentemente la cultura occidentale, essendo le dottrine principali, formatesi fra il 750 e il 950 essenzialmente contenute nel Corano, ove viene così formulata la relazione intercorrente fra la creazione e gli angeli ribelli (2, 28-39): Come potete rinnegare Dio? Eravate morti ed egli vi ha dato la vita, poi vi farà morire, poi ancora vi farà rivivere, poi a lui ritornerete. È lui che per voi creò tutto ciò che è sulla terra, poi si volse al cielo e ne formò sette cieli: egli sa ogni cosa.
«E quando il tuo Signore disse agli angeli: Ecco, voglio mettere sulla terra un mio vicario, gli angeli risposero: Vuoi forse mettere sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi celebriamo le tue lodi ed esaltiamo la tua santità? [...] Egli disse allora: O Adamo, di’ tu agli angeli i nomi delle cose!
E quando Adamo ebbe detto loro questi nomi, Dio disse: Non vi avevo detto che io conosco il segreto dei cieli e della terra e so ciò che voi manifestate e ciò che nascondete?
«E quando dicemmo agli angeli: Prostratevi davanti ad Adamo!, si prostrarono tutti eccetto Iblîs, che rifiutò superbo e divenne miscredente. [...] Ma Satana li [Adamo e sua moglie] fece scivolar via dal giardino e li tolse dalla condizione felice in cui si trovavano. [...]. Quando poi vi indicherò la giusta direzione, quelli che la seguiranno non avranno nulla da temere né li coglierà la tristezza; quelli invece che non crederanno e tacceranno di menzogna i nostri segni, quelli finiranno nel fuoco e vi resteranno per sempre», come riporta Renzo Lavatori (Antologia diabolica. Raccolta di testi sul diavolo nel primo millennio cristiano, UTET, Torino 2007, pp. 657-658, e nota 22); Iblîs, probabilmente corruzione dal greco diàbolos, rigettato, è il capo dei demoni nella concezione islamica.
«Anche la Lettera agli Ebrei parla di un comando di Dio agli angeli; il concetto cristiano di un peccato originale trasmesso a tutti gli uomini, e quindi della necessità della religione, non esiste tuttavia nell’islam.»
Roma, Castel Sant'Angelo, part.
Quali sono le testimonianze artistiche più note relative al culto di San Michele?
«Il culto di San Michele annovera infiniti luoghi, innumerevoli artisti ed opere ovunque, dal Gargano, alla Sacra di San Michele della Chiusa, a Mont Saint-Michel, dalle immagini sulle monete del secolo IX alle tele di Raffaello, Guido Reni, Luca Giordano sino ai giorni nostri.
«Risale al secolo VII l’oratorio dedicato al culto di San Michele a Roma sulla Mole Adriana rinominata Castel Sant’Angelo per il miracolo avvenuto durante l’epidemia di peste del 590.
«Secondo la leggenda, raffigurata nel comparto superiore di destra, papa Gregorio Magno alla testa di una processione organizzata per implorare il perdono divino ebbe la visione dell’arcangelo che rinfoderando la spada mietitrice di vite gli indicò la fine del morbo.
«L’apparizione sul Gargano del 490 costituisce l’altro episodio mitico legato al culto ed è invece narrata nel riquadro di sinistra: il ricco possidente Elvio Emanuele aveva perso uno dei suoi tori più belli rinvenuto dopo lunghe ricerche presso una grotta. In preda all’ira dato che l’animale rifiutava di muoversi gli scagliò addosso una freccia e Michele, custode del luogo sacro la fece tornare indietro colpendo colui che l’aveva lanciata. In alto nella cimasa è raffigurata la Crocifissione fra Maria e Giovanni Evangelista sul cui sfondo è stata riconosciuta l’isoletta partenopea di Nisida, mentre le figure dei santi patroni, Giovanni Battista a sinistra ed Omobono a destra chiudono lateralmente il polittico; quest’ultimo è raffigurato con le forbici e con il più antico attributo iconografico a lui riferito, la sacchetta di monete, simbolo delle ricchezze accumulate e poi impiegate per soccorrere i bisognosi.»
A chi è attribuito il polittico?
«L’attribuzione del polittico alla mano di Pagano si deve, come Isabella Rossi riferisce, a Ferdinando Bologna che ne ha messo in evidenza la cultura composita che spazia dalle inflessioni del linguaggio valenzano-ferrarese all’esperienza di Antonello da Messina, evidente in particolar modo nel volto-ritratto di Sant’Omobono.
«Diversamente la salda volumetria delle figure e l’impianto razionale e luminoso del paesaggio, elementi di matrice umbro-laziale e segnatamente melozzeschi, hanno portato Vincenzo Abbate ad espungere l’opera dal catalogo di Pagano e a riferirla all’anonimo Maestro dei Santi Michele e Omobono. In relazione alla celebre processione di Gregorio Magno va ricordato che un’anonima fonte francescana quattrocentesca riferisce che Niccolò III Orsini (1277-1280) fece dipingere nella sopra citata cappella intitolata all’angelo le storie di tale processione; all’inizio del Quattrocento la cappella fu trasferita più in basso, al livello del cortile d’onore di Castel Sant’Angelo e che, successivamente rimaneggiata, fosse probabilmente situata nel punto in cui fu poi costruita la nuova fabbrica di Leone X.
«La stessa fonte riferisce dell’esistenza di una prima statua esterna dell’angelo raffigurata con la spada nel fodero e collocata sulla cima del castello in epoca anteriore al papato di Niccolò III. Solo nel 1453, al tempo di papa Nicolò V (1447-1455), essa fu sostituita da una nuova statua marmorea, pagata a Giacomo dall’Aquila, cui sembra che qualche anno più tardi fosse affiancato o sostituito un altro angelo in bronzo dorato - un incendio della torre principale della fortezza causò la sua distruzione. - L’identificazione dell’angelo con il suo castello fu ripristinata da Paolo III Farnese (1534-1549) nell’ambito dei grandi lavori di rinnovamento del monumento.»
Da chi fu realizzata la statua raffigurante l'Arcangelo posta sulla sommità del castello prima di quella settecentesca tuttora presente?
«Nel 1544 il papa affidava a Raffaello da Montelupo, l’incarico di una statua marmorea di grandi dimensioni che prendeva il posto della precedente, concepita per essere veduta di lontano, elemento di paesaggio urbano, a ricordo della miracolosa apparizione divina; ove si eliminino mentalmente le aggiunte seicentesche e settecentesche, che comprendono lo svolazzante gonnellino a pieghe disordinate e peste e la destra che impugna lo spadone [...] grossa, gonfia, inerte, notati da Gianni Venturi, tale statua è pienamente coerente con l’opera di Montelupo nei primi anni Quaranta del Cinquecento, nel momento cioè del suo massimo avvicinamento a Michelangelo.
«L’Arcangelo Michele che rinfodera la spada sulla fortezza romana traduce la sublime eroicità ed il fantastico capriccio michelangiolesco in un tono elegantemente corrente, più morbido, dolce, quasi pastoso; una trascrizione volutamente media, all’interno della quale l’ornato di pura beltà diviene divertimento o, come negli spallacci con il giglio Farnese, motivo araldico; la traduzione plastica di idee michelangiolesche o almeno la consuetudine di appoggiarsi a suoi disegni, documentata ed evidente nel caso della sepoltura di Giulio II così come ancora prima nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo può interessare, come proposto da Bruno Contardi, anche tale statua, accostando a quest’ultima il foglio F 53 r. di Casa Buonarroti, da taluni ritenuto autografo michelangiolesco, da altri di scuola, e che mostra una figura stante collocata su un piedistallo e compresa all’interno di quello che sembra un blocco di marmo leggermente rigonfio ai lati di una sorta di entasi di colonna classica: la posizione delle gambe e quella conseguente del busto ricorda da vicino l’Angelo di Castello, differenziandosene unicamente per l’inversione della posa delle braccia; nel verso del foglio fiorentino è inoltre uno schizzo che può essere ricondotto ai termini della tomba di San Pietro in Vincoli, scolpiti dalla bottega romana dello scultore di Montelupo.
«Danneggiata anch’essa dalle intemperie, venne spostata nel cortile d’onore e sostituita sulla vetta del castello dall’attuale angelo bronzeo, modellato dal fiammingo Peter Anton Verschaffelt e fuso da Francesco Giardoni (1752), assunto a simbolo del castello e di tutta la Roma cristiana.
Raffaello da Montelupo, San Michele Arcangelo.
Quali altre iconografie dedicate a San Michele Arcangelo sono presenti all’interno di Castel Sant’Angelo?
«Oltre ai vari gruppi scultorei che si sono succeduti sulla sommità della fortezza, all’interno di Castel Sant’Angelo esiste tutto un filone iconografico dedicato all’angelo di Castello, a ribadire il legame inscindibile da sempre avvertito con il monumento; e si vedano le raffigurazioni pittoriche cinquecentesche dell’Arcangelo Michele di Luzio Luzi nella volta della sala della biblioteca, di Domenico Zaga nella Sala della Giustizia - ove Michele oltre alla spada regge il globo crucifero - e di Pellegrino Tibaldi nella Sala Paolina.
«Di ambito emiliano è l’affresco raffigurante San Michele Arcangelo di quest’ultimo artista il quale, prima di recarsi a Roma, aveva collaborato alle decorazioni di San Michele in Bosco, per cui le suggestioni visive desunte dalla pala di Innocenzo da Imola, e la diffusione in ambiente romano di incisioni di questo tema, dovettero essergli ben presenti.
«Non va dimenticato che tutta l’impresa di Castel Sant’Angelo era stata diretta ed ideata da Perin del Vaga che aveva a sua volta affrontato il San Michele Arcangelo durante il primo soggiorno genovese dipingendolo in una delle otto tavole del Polittico di Celle Ligure. Testimonianza del culto da sempre tributato in Castello al capo supremo della milizia celeste erano poi gli affreschi seicenteschi, ormai scomparsi, nella cappella del Maschio che si ponevano in singolare continuità storica con quelli della duecentesca cappella niccolina per il cui altare Pietro Bracci aveva eseguito una scultura in legno dorato dell’arcangelo, ancora raffigurato nell’atto eroico di rinfoderare la spada. Le fonti successive riprendono quasi invariabilmente sino al Settecento il racconto della Legenda aurea ad indicare quanto il legame angelo-castello fosse ritenuto inscindibile.
«Va anche menzionata la narrazione della processione gregoriana contenuta nel Rationale divinorum Officiorum scritto entro il 1294 e più tardi quella analoga di Fra Mariano da Firenze raccolta nel suo Itinerarium Urbis Romae del 1517, opere nelle quali il miracolo della cessazione dell’epidemia viene attribuito all’immagine della Madonna - sia quella di Santa Maria Maggiore sia dell’Aracoeli - mentre si riserva alla comparsa dell’angelo la funzione simbolica di conservare l’evento e suggellare così la fine della punizione divina.
«Due scritti devozionali dedicati alla figura dell’arcangelo, rispettivamente Della devozione che noi dobbiamo a San Michele Arcangelo e del patrocinio che egli ha su di noi del gesuita Giovanni Eusebio Nieremberg composto nel 1698 e l’opera di Giovanni Marangoni Grandezze dell’Arcangelo Michele nella chiesa Trionfante, Militante, Purgante [...] del 1739, esprimono come momento centrale della processione l’apparizione del santo guerriero, di cui si esalta il ruolo di intercessore degli uomini presso Dio e protettore della chiesa.»
Quale ruolo viene attribuito al capo supremo dell’esercito celeste?
«Al capo supremo dell’esercito celeste viene dunque riservato duplice ruolo: è l’angelo vendicatore che si arma e colpisce il peccato infliggendo agli uomini la punizione della peste, simboleggiando così la giusta punizione e l’ira divina - interpretazione questa della peste in chiave medioevale quale segno della volontà punitiva di Dio verso gli uomini che risale ad un passo veterotestamentario: 2 Sam 24, 15-16; - dall’altro rinfoderando la spada Michele personifica la misericordia, la clemenza e la pietà verso la miseria ed il pentimento umani; drammatica ambivalenza ove si situa tutta la bellezza spirituale del celeste archistratego che la leggera figura angelica reniana nel suo gesto terribile ma incruento esprime in modo sublime, angelo con la spada fiammeggiante che in campo pittorico ha goduto di vasta eco. Durante il Medioevo e sino al tardogotico è rappresentato nelle numerose raffigurazioni dedicate alla processione di San Gregorio rivisitate ed attualizzate nei secoli XV e XVI. Si ricordi anzitutto quella di Parri (Gasparre) Spinelli, figlio di Spinello Aretino, in San Francesco ad Arezzo, seguita dal San Michele Arcangelo e il drago dipinto intorno al 1425 da Nic(c)olò da Voltri - una tempera con argento e oro su tavola, di cm 188 x 79 - acquisito sul mercato antiquario dalla Galerie G. Sarti di Parigi, collezione presso la quale oggi si trova, recentemente esposto alla Tefaf di Maastricht nel marzo del 2010 e poco dopo alla terza edizione di Collezioni d’Arte Antica, Moderna e Antiquariato tenutasi nel maggio dello stesso anno presso la Permanente di Milano.
«Formatosi nella cerchia di Barnaba da Modena che operava in Liguria fra il 1361 ed il 1383, è attivo a Genova fra il 1394 al 1417, recependo negli ultimi anni del secolo XIV gli aggiornamenti stilistici proposti dal senese Taddeo di Bartolo documentato sul territorio ligure dal 1393 al 1398 e i modi del pisano Turino Vanni. Nella tavola Michele compare in abiti di archistratego, comandante supremo delle schiere celesti, in clamide purpurea, con loros imperiale, globo crocesegnato nella mano destra, reggente nella mano sinistra una lancia.
«Alla tradizione iconica che traduce fedelmente il racconto della Legenda aurea - cui appartengono ad esempio una lunetta dipinta da Giovan Battista Lombardelli del 1583, oggi conservata alla Santissima Annunziata di Roma, ed un affresco risalente circa al 1600 di Giovan Battista Ricci da Novara nella cappella Salviati in San Gregorio al Celio - si abbina un significativo mutamento iconografico quando alla narrazione in chiave storica della miracolosa apparizione subentra una nuova variante secondo la quale da semplice attributo scenografico l’arcangelo diviene il soggetto principale di una scena iconica in cui egli campeggia con la spada fiammeggiante come protagonista assoluto esaltato nella sua missione salvifica - si veda la pala del 1757 di Nic(c)olò Ricciolini (1687-1772) nella chiesa di San Gregorio Magno a Roma -. Le numerose epidemie che colpirono le città italiane (Milano 1576, 1630; Venezia 1630; Napoli 1656) orientarono la cultura figurativa ad elaborare particolari iconografie e contaminazioni tipologiche.
«Così Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, che si dedicò alla cura degli appestati compare in una serie di dipinti in preghiera con un angelo in volo che rinfodera simbolicamente la spada - Andrea Commodi (1560-1638) in San Carlo ai Catinari ed Etienne Parrocel (1646-1704) in Santa Prassede o l’anonima tela settecentesca proveniente dal mercato antiquario parigino e dal 2012 a Roma in Collezione Lemme. - E l’iconografia dell’Arcangelo che ripone la spada diventa universalmente una figura simbolica della peste come attestano una serie di esempi veneziani, romani, napoletani collegati all’epidemia del 1630 - Giuseppe Hein(t)z il Giovane nella chiesa di San Fantin e Pietro Negri nella Scuola Grande di San Rocco.
«Il tema micaelita doveva attirare particolarmente l’attenzione del Vasari - si ricordi la descrizione delle opere di simile soggetto di Beccafumi e Lotto dei quali scriverà la Vita solo nell’edizione del 1568 - dato che sempre fra le opere aretine si rintraccia un’altra descrizione di un’opera di analogo soggetto con San Michele che assale il drago di mano di Antonio Pollaiolo (c. 1431-1498), un gonfalone dipinto per la Compagnia di San Michele Arcangelo ad Arezzo, solitamente identificato con la tela - un olio di cm 175 x 116 - datata intorno al 1465, già nella collezione aretina di Francesco Rossi e ora al Museo Bardini di Firenze.»
Può condividere qualche altra informazione in merito?
«L’opera appartiene alla serie di gonfaloni richiesti negli anni intorno al 1460 in coincidenza con episodi ricorrenti di peste; la presenza di Antonio Pollaiolo è documentata a Volterra il primo ottobre del 1466 ciò che ha lasciato supporre che egli avesse potuto essere presente il 29 settembre, festa di San Michele Arcangelo, ad Arezzo per consegnare il gonfalone alla compagnia; la questione ancora aperta circa l’attribuzione della mano (Antonio o il fratello Piero [1443 - 1496]) si abbina a quella dell’autenticità, ovvero se la tela Bardini sia un originale o una copia; tuttavia il lato con San Michele aveva originariamente tale aspetto dato che ne esiste una copia seicentesca nella chiesa di San Michele a Raggiolo, nel Casentino, firmata dal pittore aretino Sebastiano Pontenani morto nel 1644.
«La tela dai toni bruni e terrosi inquadra il santo in una posa dinamica già proposta dall’artista nelle immagini di Ercole; collocato nello spazio aperto di una radura, armato di corazza, elmo, schinieri, spada bilamata e scudo è strategicamente inteso con atteggiamento marziale che pare aver perso, fatte salve le grandi ali spalancate, ogni connotazione sovrannaturale a sferrare il colpo sulla testa impennata del drago.»
Daniela Larentis – [email protected]
(Fine seconda parte – La terza parte domani mercoledì 6 maggio)