Il «Comitato dei saggi» deciderà le uve trentine da promuovere

Ed ecco allora una breve ricostruzione storica delle uve scomparse e di quelle consolidate dai tempi del Concilio a oggi

Troppo pochi i riferimenti per poter identificare le prime qualità di uve coltivate nella nostra Provincia, però si può effettuare una verosimile ricostruzione grazie a un libro pubblicato da Michelangelo Mariani nel 1673 e intitolato «Trento, con il sacro concilio et altri notabili».
Il Concilio di Trento era finito 110 anni prima, ma le cronache di quel fantastico periodo, che segnò il passaggio del Trentino dal Medioevo al Rinascimento, erano appena cominciate.

Verosimilmente le più antiche uve sono la schiava, la rossara, la negrara, la garganega, perché risalgono a prima dell'introduzione del marzemino (o lagarino), che dovrebbe essere stato importato nel XV secolo.
Il Mariani nomina i vini gocciadoro, garganico, moscato, malvasia, vernaccia, teroldego e marzemino.
Altre qualità si trovano nominate altrove, ma il più delle volte si riferiscono al luogo di origine, al colore o alla qualità, come per esempio la vesentina, la cinese, la turca, il negron, la rossetta, la biancazza, l'uvadoro, il durello, la signorina, il pegolrosso, che però non consentono alcuna particolare identificazione.

Qualche volta vengono letti dei nomi la cui interpretazione, credo, lasci tutti perplessi.
Che vini saranno stati il cagainbraga, il piscialaquaglia, il pagadebiti, la codadivacca, eccetera?
Ma già nell'800 si sarebbe potuto fare un elenco preciso delle viti di allora coltivate in Trentino.
Angelica grossa bianca (zona dell'Avisio), biancazza (Levico e Caldonazzo, corrisponde alla gargànega), bonencà (bonaincasa, Vallagarina), botaciàra, cembràra, cenése bianca (Valsugana, come la vernaccia), corniòla, durèllo (nosiola, in val di Cembra e Calavino), groppèllo bianco (Vallagarina), noselàra (Telve di sopra), gargànega (Valsugana e Spor Maggiore), bianchét (Meano), biancazza (Levico e Caldonazzo) e il gocciadoro.
Il nome del gocciadoro ricorre fin dal 1433 e il Mariani lo commenta così: «vino così detto dalla preziosità del sapore e dal color che sembra un Or potabile con lega di dolce».
E un noto proverbio dice che «El vin de Gozador e de Isera el va fin al re de Baviera; el vin de Isera e de Gozador i va fin a l'Imperador».

Poi troviamno il groppello (caratteristico della Val di Non, una volta anche nel Vezzanese), il lagarino (o marzemino, tipico della Vallagarina). Il lagarino bianco è caratteristico anche in val di Cembra e a Meano.
È chiamato Lagarino sulla riva sinistra dell'Avisio e Chegarèl sulla riva destra.
Quindi la lambrostega (per lambrusco), lugliàtica bianca e nera (anche agostésa e uvésa), malvasia (nominata fin dal 1476), martinazzo, marzemina (vedi lagarina), milanese, moscatella bianca e nera, negrara o trentina, nosiola (o durello), paolina (tipica della valle del Sarca), pavana (caratteristica della Valsugana, nota fin dal 1500), pegolrosso (peculiare del Basso Sarca), negrara (Riva e Arco).

E ancora la romana bianca (già coltivata in Vallagarina e nel Vezzanese), la rossara, la schiava (anticamente la più pregiata) in più varietà: schiava grossa (o schiavona), schiava media, schiava gentile, schiava grigia.
La schitarella (in Vallagarina) e la cenese bianca sono entrambe vernaccia. Signorina, teroldega (tipica della Piana Rotaliana), trebbiano, varòbo (o varo e varò), il verdalbàra (caratteristica della Valle di Non e del Perginese), vernaccia (o vernazza) che è una delle migliori qualità di vini bianchi trentini, in particolare quella di Dro, la vesentina (detta anche pavana o vicentina) e infine, nientemeno che lo zibibbo.

Questo lungo elenco di vitigni venne col tempo via via depurandosi dei più ordinari, per fissarsi su alcuni che sono riusciti a superare la grande crisi della filossera (metà '800)e che tuttora permangono fondamentali per il Trentino, quali ad esempio le schiave, il teroldego, il marzemino.
Con la fondazione dell'Istituto Agrario di San Michele all'Adige (1874) furono introdotti nel Trentino, per merito del suo primo direttore, Edmondo Mach (da cui il nome della odierna Fondazione), alcune varietà della Borgogna e del Bordeaux, e cioè il pinot bianco, il pinot nero, il cabernet e il merlot. Vitigni che per i loro alti requisiti di merito hanno trovato la buona diffusione che conosciamo.

Oggi il cosiddetto «Comitato dei saggi» dovrà stabilire su quali uve i vignaioli trentini dovranno puntare per superare la più grave crisi dai tempi del metanolo a oggi.
La strada è ormai nota a tutti, e sappiamo che tra le etichette da salvare non ci saranno la pavana, la vesentina e la signorina, che esistono ancora, ma che vanno ormai sulle tavole di pochi affezionati del vino di un tempo che fu.