Maurizio Panizza, «Chiarina che morì due volte» – Di D. Larentis
L’indagine del giornalista è una storia mai raccontata che fa luce su un caso di femminicidio accaduto nel 1929 – L’intervista
L’indagine condotta dal giornalista Maurizio Panizza su un caso di femminicidio avvenuto nel 1929 è una storia che ci riporta tristemente ai giorni nostri, invitando a una profonda riflessione sul tema della violenza sulle donne e alle sue implicazioni.
È la narrazione di un accadimento storico che tristemente rimanda al nostro presente, offrendo la possibilità di ragionare anche sulla crisi culturale e sociale che stiamo vivendo; la violenza sulle donne è infatti una violazione dei diritti umani, riguarda non solo atti che provocano la morte e la sofferenza fisica ma anche quelli di natura psicologica, comprese le minacce.
Interrogarsi su questo fenomeno di natura strutturale è anche utile per cercare di capire il ruolo che viene attribuito alle donne nella nostra società.
Molte di quelle che patiscono violenze di vario genere (soprattutto psicologiche ma non solo) non sono nemmeno consapevoli di essere dominate, subiscono dei condizionamenti sociali che le portano ad accettare delle situazioni di per sé inaccettabili senza trovare il coraggio di ribellarsi (e quando lo fanno spesso non vengono ascoltate).
Il concetto di dominio rimanda a una riflessione del sociologo Bourdieu, secondo il quale dominare non vuol dire unicamente imporre la propria volontà ma anche definire le regole del gioco. In particolare, una forma di dominio è efficace quando c’è misconoscimento della violenza, chi la subisce non ne è del tutto consapevole.
La donna oggetto di violenza non è debole, non è fragile. Ad esserlo è chi utilizza lo strumento della violenza in tutte le sue declinazioni, ad iniziare da quella verbale. E non si parli d’amore! Come sottolinea Panizza, quello di chi uccide non è un amore malato, non è semplicemente amore, l’amore non è mai violenza, non è mai prevaricazione.
Giornalista dagli inizi degli anni Novanta, Maurizio Panizza ha prestato servizio per molti anni al quotidiano Alto Adige (l’attuale Trentino), mentre in seguito è stato direttore responsabile di alcune testate fra cui Nuove Idee e Linkè.
Oltre all’attività giornalistica, in anni più recenti si è occupato anche di sindacato, scuola e politica e attualmente è docente presso l’Università della terza età e del tempo disponibile.
Da tempo scrive sul mensile Trentino Mese ed è redattore del giornale online l’Adigetto.it, titolare della rubrica «Da una foto una storia»; interviene, inoltre, spesso sulle pagine del quotidiano l’Adige con contributi di attualità o di costume.
Avvicinandosi alla Storia del Trentino, da qualche anno si è specializzato nell’indagare avvenimenti e personaggi del passato portando alla luce vicende sconosciute poi riproposte in tv in collaborazione con Rai 3.
Sempre per lo stesso filone d’indagine, si è recentemente dedicato alla documentaristica storica producendo con il regista Federico Maraner un cortometraggio dal titolo «Come uccelli d’argento», che racconta del primo e più tragico bombardamento su Rovereto della Seconda Guerra Mondiale, dando voce agli ultimi sopravvissuti e svelando retroscena finora inediti.
Attraverso il programma «Trentino da raccontare» realizzato per Rai Radio1, ha proposto agli ascoltatori le sue indagini storiche. Fra le diverse altre pubblicazioni al suo attivo, segnaliamo: «Eroe plebeo», Edizioni Stella (2003); «Antiche strade», Edizioni Osiride (2011), «Diario familiare» (2018), Edizioni Curcu Genovese.
Abbiamo avuto il piacere di porgergli alcune domande.
Come è nata l’indagine sulla morte di Chiarina?
«È nata puramente per caso. Una domenica di due anni fa stavo percorrendo a piedi un sentiero che da Mori porta in montagna, verso la Valle di Gresta, quando a circa metà del percorso mi sono imbattuto in un cippo in pietra che ricordava il delitto.
«A quel punto, da giornalista d’indagine quale sono ormai da diversi anni, non potevo non domandarmi chi fosse la vittima, chi l’assassino e come avvenne quell’efferato omicidio. E da lì è partita la mia ricerca.»
E chi era questa sfortunata donna morta tragicamente novant’anni fa?
«Il suo nome era Chiara, ma veniva chiamata Chiarina. Era nata a Castellano, frazione di Villa Lagarina, nel 1886, quindi aveva 43 anni al momento dell’assassinio. Di cognome faceva Curti ed era vedova di Giosuè Beltrami, soldato austro-ungarico disperso in Russia nella Prima Guerra Mondiale.
«Chiarina, che abitava a Nomesino, era madre di quattro figli, ma al tempo stesso era imprenditrice agricola, se vogliamo usare un termine oggi in voga. In altre parole, alla partenza del marito per il fronte lei si era sostituita a lui in tutto e per tutto.
«Durante il conflitto, assieme ai figli in tenera età era poi stata profuga in Boemia e, finita la guerra, al rientro in paese dovette rimboccarsi le maniche per portare avanti i campi e produrre di che vivere per tutta la famiglia.
«Da quanto ho scoperto, si sapeva destreggiare bene anche negli affari, con i creditori, con il Comune, la Cooperativa e la Cassa Rurale. Forse, è da dire, era una donna fin troppo emancipata per quegli anni e non escludo che questo suo modo di essere abbia alla fine attirato su di sé la malignità delle bigotte e di chi quell’autonomia la apprezzava sottovoce, ma la condannava in pubblico.»
Potrebbe spiegare il significato di quel «morta due volte» del titolo?
«La risposta è abbastanza semplice e sta appunto in quanto ho appena detto. La povera Chiarina venne prima uccisa nel corpo dal suo assassino e poco dopo uccisa nel ricordo dalla gente del suo paese.
«Quando le indagini dei carabinieri portarono a galla che la donna aveva una relazione segreta con un forestiero che aveva incontrato più volte a Mori e a Rovereto, la gente del paese la indicò come una poco di buono senza considerare che lei, in fondo, era libera e che aveva pure il diritto di rifarsi una vita.
«Ecco, agli occhi della gente la colpa della povera Chiarina fu quella di essere andata oltre le regole sociali e morali imposte da una comunità chiusa come quella di quel tempo, la quale, anche attraverso il potere della Chiesa, controllava e regolava ogni aspetto della vita dei propri componenti.»
Dal punto di vista metodologico come ha condotto le ricerche?
«La cosa più difficile è stata quella di trovare il bandolo della matassa. Questo perché nulla di quella triste vicenda era rimasto nella storia scritta della Valle, né tanto meno nei ricordi dei suoi abitanti.
«Anzi, devo dire che nel corso delle mie interviste in loco, neppure le persone più anziane sembravano ricordare qualcosa di quel tragico avvenimento. In qualche caso ho comunque notato che non era il tempo trascorso che bloccava la memoria, ma era dell’altro, qualcosa di somigliante al disagio di qualcuno che sa, ma che non può o non vuole parlare.
«Poi, dopo aver trovato un piccolo trafiletto sul giornale Il Brennero del 5 novembre 1929 che parlava del delitto, mi sono rivolto prima al Tribunale di Rovereto, poi alla Corte d’Appello di Trento.
«È qui che ho rinvenuto il fascicolo giudiziale che mi ha permesso di ricostruire la vicenda fin nei minimi particolari.»
In ogni parte del mondo ci sono donne che vengono uccise ogni giorno per mano di uomini conosciuti, vittime di una violenza che pare inarrestabile. Vuole condividere una riflessione a proposito di questo aberrante fenomeno?
«Da subito mi viene da rispondere che questi casi criminali nulla hanno da spartire con l’amore, quello vero, fatto di comprensione, di pazienza e di rispetto reciproco. Mi fa sorridere amaramente quando sui giornali leggo titoli in cui si parla di amore violento, oppure di amore malato.
«Macché amore! Se amore c’è stato ieri, di certo nulla ha a che vedere con il sentimento che oggi ha mosso la mano dell’assassino. Certo preoccupa non poco l’escalation di questi continui omicidi negli ultimi anni. E in tal senso se il pensiero corre alle vittime, come non chiedersi pure cosa scatta nella mente di questi uomini che anziché essere dominanti, come vorrebbero essere, sono dei deboli, dei falliti di se stessi?»
Secondo la riflessione del sociologo Bourdieu, una forma di dominio è efficace quando vi è misconoscimento della violenza, le donne infatti spesso non sono del tutto consapevoli di subirla (almeno inizialmente, soprattutto quella psicologica). Qual è il suo pensiero a riguardo?
«Se per l’uomo - quanto meno per molti uomini - uscire da una gabbia con sbarre che si chiamano «possesso», «egoismo», «violenza» pare essere ancora un percorso lungo e faticoso, neppure la donna - anche qui la puntualizzazione è per certe e non per tutte, ovviamente – ha da restare ferma. Nel senso che spesso di fronte a violenze domestiche, fisiche o psicologiche, la donna tende a trovare delle giustificazioni per il proprio partner.
«In più, per alcune, si manifesta talvolta una strana cosa, che io chiamo sindrome della crocerossina, secondo la quale la donna vuole convincersi di poter cambiare l’uomo che ha al suo fianco. Scelta che in qualche caso si rivela, purtroppo, estremamente pericolosa se non addirittura fatale.»
Crede che l’uomo riuscirà mai a rinunciare al dominio sulla donna, inteso come controllo e sopraffazione?
«Sono convinto che arriverà un tempo in cui il ruolo della donna nella società del domani sarà addirittura prevalente su quello dell’uomo, sia nella politica che negli incarichi di responsabilità. E questo non accadrà perché l’uomo avrà deciso autonomamente di rinunciare al suo status dominante, bensì perché sarà stata lei, la donna, a riscattarsi dal suo ruolo di subalternità attraverso la presa di coscienza del suo valore.
«Un percorso culturale che verrà a riequilibrare i generi e che sarà conseguenza di un percorso lungo, ma, a mio avviso, inarrestabile. Se vogliamo, già nella società di oggi si possono riconoscere dei piccoli-grandi segnali che in tal senso si rifanno tutti a donne leader.
«Alcuni esempi? L’astronauta Samantha Cristoforetti; Fabiola Gianotti fisica italiana, direttrice del CERN di Ginevra; Marta Cartabia, prima donna Presidente della Corte Costituzionale in Italia. Per non dire di Sanna Mirella Marin, Primo Ministro finlandese e della giovane Greta Thunberg, attivista mondiale per l’ambiente.
«Da notare che spesso, diversamente dagli uomini, queste e molte altre donne, lavorano sodo e in silenzio arrivando a ricoprire ruoli apicali dopo anni di impegno, spesso senza che l’opinione pubblica abbia mai sentito fino a quel momento parlare di loro. Come a dire che le donne, in genere, amano la sostanza, la concretezza e molto meno la forma e la pubblicità gratuita.»
A cosa sta lavorando attualmente?
«A molti progetti, per la verità, alcuni in fase di conclusione, altri di prossimo avvio. Per essere più preciso, sto lavorando con il regista Federico Maraner a un documentario sui bambini di Trento nella Seconda Guerra Mondiale, patrocinato dalla Provincia di Trento e finanziato dalla Fondazione Caritro.
«Poi ho un volume in preparazione che raccoglierà tutte le mie indagini storiche più recenti. Inoltre, conto di pubblicare entro il 2020 il mio primo romanzo, che ho già in bozza e che ho lasciato a riposare in un cassetto ormai da quattro-cinque anni. Infine sto riavviando con la Rai una collaborazione in merito ai miei ultimi racconti.»
Progetti futuri?
«Ne ho alcuni in mente e corrispondono a quelle idee ancora in incubazione che hanno bisogno di tempo e di lavoro per poter iniziare a prendere forma. Fra questi progetti ne ho uno molto ambizioso che va al di là di ciò con cui mi sono cimentato finora. Si tratta di un film che nelle intenzioni vorrebbe raccontare le vicende del Sud Tirolo-Trentino a cavallo fra Ottocento e Novecento.
«Un’impresa, ovviamente, non facile, soprattutto per quando riguarda il reperimento dei necessari finanziamenti. Faccio notare che quest’idea è la prima volta che la rivelo in pubblico, per cui se quest’intervista mi dovesse portasse fortuna, le assicuro che, quando succederà, le prime dichiarazioni tornerò a rilasciarle proprio a lei e al giornale L’Adigetto.it che oggi ringrazio per la cortese ospitalità. Promesso.»
Daniela Larentis – [email protected]