Valentina Casalini, giovane fotografa di talento – Di Daniela Larentis

Si è specializzata studiando ad Urbino, ora si divide fra l’Italia, Londra e New York

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Valentina Casalini è una giovane fotografa trentina di talento, la quale dopo aver studiato in Italia, prima a Trento e poi a Urbino, si divide ora fra il nostro paese, Londra e New York, dove sta riscuotendo ampi consensi.
Il suo modo di fare fotografia piace, numerose sono le mostre al suo attivo, sia in Italia che all’estero.
Siamo lontani dall’epoca in cui il celebre fotografo e giornalista francese Gaspard-Felix Tournachon, conosciuto con lo pseudonimo di Nadar, scattava le prime fotografie aeree della storia, a bordo di un aerostato (era il 1858), e anche dagli anni in cui un altro fotografo, il francese Henri Cartier-Bresson, iniziò a scattare le sue prime foto (erano gli anni Trenta del Novecento e la macchina da lui utilizzata era una Leica).

Ora viviamo nell’era digitale, un’epoca in cui, tuttavia, realizzare una bella fotografia è comunque molto meno facile e di gran lunga più impegnativo di quello che si potrebbe pensare di primo acchito.
La fotografia documenta la realtà che ci circonda, è una forma d’arte: in realtà il fascino di ogni splendido scatto scaturisce dalla preparazione, dalla sensibilità, dall’immaginazione di chi sa dare corpo a un’emozione.
Una foto cattura il nostro sguardo, attraverso gli occhi arriva fino al cuore ed è qualcosa che mostra ciò che spesso non si può e non si sa vedere dal vivo, qualcosa che ha molto a che vedere con la sfera spirituale di ognuno.
Abbiamo avuto modo di porgerle alcune domande.
 

 
Quando è nata la passione per la fotografia?
«Non c'è stato un momento preciso, questa passione è nata e cresciuta col tempo.
«Ho iniziato per caso alle elementari, quando per gioco ho preso in mano una di quelle macchinette automatiche che mia madre usava a quell’epoca.
«Tuttavia, più che a cogliere il momento, il mio interesse era rivolto alla rappresentazione cartacea di ciò che stavo fotografando.»
 
Qual è la sua formazione e le tappe più significative del suo percorso?
«Alle medie ho avuto in regalo la mia prima reflex, ma è solo durante l'università che ho maturato la consapevolezza di voler assecondare questa passione approfondendola in modo serio.
«La fase fondamentale è cominciata durante la mia specialistica in fotografia a Urbino. Da lì in poi è cambiato completamente il mio approccio alla fotografia, da strumento di svago la macchina fotografica è diventata uno strumento per pensare, per riflettere e trasmettere agli altri la mia visione delle cose.
«Fondamentale è stato anche avere alcuni insegnanti come Guido Guidi che mi hanno aperto letteralmente gli occhi alle diverse possibilità di visione».
 
Londra e New York: cosa rappresentano per lei?
«Sono due grandi città, ambedue frenetiche, che hanno in comune il perenne desiderio di mutamento, l'alta richiesta e offerta di qualunque genere di cose.
«Città dove basta uscire di casa e sei letteralmente investito da innumerevoli stimoli e dove puoi percepire un forte sentimento di libertà.
«Sono città che offrono tanto, ma pretendono anche molto: puoi riuscire a vivere vite molto intense, ma puoi anche perderti facilmente.»
 
C’è qualche fotografo a cui si è ispirata almeno inizialmente?
«Per la mia grammatica visiva sono stati particolarmente rilevanti i lavori di Guido Guidi, la scuola tedesca dei Becker, Lewis Baltz e la New Topographics americana.
«Credo però che sia fondamentale avere una cultura visiva dell'arte in generale e poi imparare a conoscere la fotografia, sperimentando, sbagliando, leggendo e approfondendone i diversi aspetti.»
 

 
Quali sono i soggetti o le situazioni da cui trae maggior ispirazione? Cosa le piace fotografare?
«Le situazioni più attraenti per me sono quasi sempre notturne, posti più o meno isolati in città, case e pareti assumono volti totalmente diversi durante la notte.
«Un tema a me caro è il concetto di home, casa come luogo e concetto astratto, come concentrato d' umanità, come espressione del proprio io; può essere il luogo dove si è cresciuti ma ci si può sentire a casa anche in un posto che non si ha mai visto prima.»
 
Fra le mostre a cui ha partecipato quale ricorda con più emozione?
«Probabilmente quella a Londra lo scorso inverno, è stato emozionante essere presente in un contesto così internazionale.»
 
Lavora più sull’«impressione» o sulla «descrizione»? Quale dei due approcci sente più vicino al suo modo di fare fotografia?
«Credo sia più una combinazione di entrambi. Il concetto d'impressione per me è più un fattore che si costruisce negli anni.
«Lo si considera come immediato, credo che maturi di pari passo con il proprio modo di vedere, che altro non è che il tuo pensiero reso visibile.»
 
Come nasce un suo progetto sul piano strettamente pratico?
«Di solito nasce dai posti in cui vivo, un luogo che mi attrae istintivamente; si presenta in testa in modo ricorrente una certa immagine fino a quando diviene quasi un dovere scattarla.
«Altre volte, invece, parto da un’idea e da una ricerca che prosegue con una serie di sopralluoghi e alla fine scatto. Può succedere anche di realizzare una serie di scatti molto velocemente e in pochi giorni hai già il tuo progetto.
«Altre volte, impieghi dei mesi a scattare una singola immagine. Sono molto legata all'immaginario cinematografico e tendo a cercare scenari quasi fossero le sequenze di un film.
«In generale è molto difficile determinare un inizio o una fine e spesso il finale resta aperto, potrebbe continuare all'infinito.»
 
In che formato scatta di solito e che fotocamera usa attualmente?
«Il formato è il 35 mm, la fotocamera è una Nikon DF.»

Come definirebbe la sua fotografia usando degli aggettivi?
«Urbana, nostalgica, utopica.»
 

 
In base alla sua esperienza trova che vi siano differenze fra la fotografia italiana e quella per esempio newyorkese?
«La fotografia italiana come la storia dell'arte in generale ha sempre dovuto fare i conti con un'eredità pesante alle spalle, e a volte può sembrare più obsoleta di altre, mentre in realtà è solo più radicata.
«La cultura visiva americana ha teso e stravolto alcuni importanti paradigmi, forse anche grazie a una maggiore libertà di movimento e di rappresentazione.
«Rimane il fatto che, soprattutto oggi, vi è una tale fruibilità della cultura visiva che la differenza non la fa più la nazione in cui nasci, ma la volontà di conoscenza della persona.»
 
Cosa rappresenta per lei la fotografia in termini emotivi?
«Una sorta di evasione e allo stesso tempo di completa immersione in quello che mi circonda.»
 
Qual è la sua posizione riguardo al dolore? Le interessa rappresentarlo o preferisce altri generi?
«Il dolore è uno di quegli argomenti intrattabili per me. Più che rappresentarlo, tendo ad affrontarlo proprio con la fotografia o la pittura.»
 
La sua opinione sul fotoritocco?
«Se lo si conosce bene e lo si utilizza in modo appropriato, seguendo una linea di pensiero può divenire un ottimo strumento per finalizzare una fotografia. Quello che si fa oggi in Photoshop lo si faceva prima in camera oscura.»
 
Qual è il più bel complimento che ha ricevuto?
«Le tue foto sono capaci di dare voce anche ai muri.»
 
Chi è Valentina Casalini e quali sono i suoi sogni nel cassetto?
«Una persona che desidera poche cose in realtà ora, ma la più importante è quella di riuscire a condividere e costruire un posto proprio dove poter sempre tornare e sentirsi a casa.»
 
Daniela Larentis – [email protected]