«Associazione Castelli del Trentino» – Di Daniela Larentis
Italo Franceschini giovedì 17 ottobre 2019 darà il via al nuovo ciclo di serate con un incontro sul mangiare e bere dei contadini nel Medioevo in Trentino – L’intervista
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Fra pochi giorni prenderanno nuovamente il via gli Incontri del giovedì, il seguitissimo ciclo di serate predisposte dall’Associazione Castelli del Trentino, organizzato dal presidente Bruno Kaisermann e dal vicepresidente, il giornalista, storico e critico d’arte Pietro Marsilli.
Da oltre trent’anni l’associazione è attiva nell’ambito culturale provinciale soprattutto attraverso pubblicazioni, convegni e cicli di conferenze su tematiche storiche e storico-artistiche che vengono seguiti con attenzione dal pubblico e dalla stampa.
A riprova della stima di cui è circondata, ricordiamo che le iniziative proposte godono del patrocinio, fra gli altri, della PAT, dell’Accademia roveretana degli Agiati e della Società di Studi trentini di Scienze storiche e sono riconosciute valide ai fini dell’aggiornamento del personale docente da parte dell’Iprase.
Il ciclo di incontri proposto quest’anno si coordina attorno ad un unico tema: la storia sociale del cibo e dell’alimentazione in Trentino.
Tutti sette gli interventi (ad entrata libera e gratuita) si terranno a Mezzolombardo, nella prestigiosa Sala Spaur di p.zza Erbe, alle 20.30, il terzo giovedì di ciascun mese.
Il primo appuntamento, dal titolo «Mangiare e bere dei contadini nel Medioevo in Trentino», è fissato per giovedì 17 ottobre 2019. Protagonista della serata sarà Italo Franceschini, bibliotecario della Fondazione Biblioteca San Bernardino di Trento e membro della Direzione della Società di Studi Trentini di Scienze Storiche.
Come lui stesso sottolinea, forse per la prima volta nella storiografia lo studio dell’alimentazione si è discostato dalle fonti narrative e dall’esame di ricettari, trattati di agronomia e medicina per concentrarsi su un tipo di documentazione più immediata e quotidiana (patti agrari, elenchi di redditi, atti amministrativi, etc.) alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, grazie agli studi di Massimo Montanari.
Iniziando da una profonda rilettura dell’Alto Medioevo, si sono così evidenziati i complessi rapporti che legano tra loro: approcci culturali, ambiente, pratiche agrarie, demografia e abitudini alimentari, con risultati spesso sorprendenti.
In questa serata Italo Franceschini ragionerà sulle informazioni che le fonti conservatesi nell’area che comprende l’attuale Trentino possono offrirci a proposito delle consuetudini alimentari di chi viveva nelle ville e nei mansi con l’auspicio che, messi in evidenza alcuni problemi metodologici, anche a livello locale si possa iniziare ad approfondire quest’affascinante argomento, magari potendo contare sull’aiuto dell’archeologia che indubbiamente riesce a portare alla luce dati che alle fonti scritte sfuggono quasi del tutto.
Alcune note biografiche sul relatore dell’incontro prima di passare all’intervista.
Concluso il liceo classico Prati e conseguita la laurea in Lettere all’Università di Trento (110 e lode), Italo Franceschini è stato collaboratore esterno della Provincia Autonoma di Trento (Soprintendenza beni librari e archivistici) impegnato nella catalogazione di edizioni del XVI secolo e valorizzazione di fondi librari antichi e bibliotecario presso il Collegio Arcivescovile Endrici di Trento.
Dal 2003 è bibliotecario presso la biblioteca della Fondazione Biblioteca San Bernardino di Trento.
È autore di diversi saggi importanti usciti su «Studi Trentini. Storia» e su altre riviste scientifiche, ma anche di libri storici, sia da solo che insieme ad altri autori.
Suo ambito di studio privilegiato geograficamente è il Trentino, cronologicamente il basso medioevo e la prima età moderna.
Tematica privilegiata la storia economica e sociale delle aree di montagna. Diversi anche i contributi bilbiografici e biblioteconomici.
È membro fra l’altro del Centro Studi Judicaria e della Società di Studi Trentini di Scienze Storiche.
Abbiamo avuto il piacere di porgergli alcune domande.
Castagne.
Su quali aspetti verrà maggiormente focalizzata l’attenzione durante l’incontro di giovedì 17 ottobre?
«Verranno affrontati principalmente alcuni aspetti che riguardano il rapporto stretto tra storia ambientale e storia dell’alimentazione, con qualche accenno a quello tra cultura di classe e alimentazione. Per quanto riguarda il Trentino occorre fare una premessa.
«Non abbiamo fonti tali che ci permettano di identificare una specificità trentina: quelle in qualche modo utili che abbiamo a disposizione sono parziali, partono tutte dal XII secolo in poi e sono, soprattutto, documentazioni fiscali da un lato e dall’altro contratti di tipo agrario.
«Analizzandole è emerso che venivano spesso richiesti dai signori i cibi che si conservavano, rispetto ai cibi più deperibili, parliamo quindi dei cereali, dei legumi, del formaggio, della carne di maiale conservata, soprattutto in forma di prosciutto (vengono sempre nominate le spalle di maiale, ma non sappiamo se salate o affumicate).»
Quali erano i cereali e i legumi maggiormente coltivati di cui si ha traccia?
«Nella documentazione pervenuta sono ricordati quei cereali e quei prodotti vegetali che, come ho detto, si prestavano alla lunga conservazione.
«I cereali che venivano prodotti maggiormente in area trentina erano quelli che venivano prodotti sulle Alpi, fra cui un tipo di grano probabilmente più resistente e più rustico detto siligo; si era ipotizzato che si trattasse della segale, però ci sono dei registri in cui vengono nominati entrambi, quindi evidentemente erano due cose diverse.»
Quando vennero piantate le vigne da noi?
«Non si sa esattamente il periodo preciso, la vite era comunque presente e da molto tempo sul territorio. Le richieste di vino o di mosto d’uva da parte dei grandi proprietari medievali erano frequentissime, anche se nelle fonti non è specificata spesso la tipologia, di tanto in tanto c’è qualche riferimento circa la differenziazione fra vino bianco e vino nero.
«Il vino bianco era comunque ritenuto più pregiato, in quanto se ne potevano valutare meglio alcune condizioni organolettiche come il grado di trasparenza.»
C’è traccia del consumo di frutta?
«Probabilmente il consumo della frutta era diffuso, in realtà abbiamo traccia della presenza di alberi da frutto, spesso venivano usati come punto di riferimento per le confinazioni. Tuttavia, la frutta non rientrava mai nei contratti in cui il locatario era tenuto a corrisponderne una certa quantità, come succedeva per altri prodotti.»
E delle spezie?
«Nel Medioevo qui da noi l’unica spezia che ricorre frequentemente nella documentazione è il pepe. Il pepe, però, era talmente raro che veniva usato come pagamento dal forte valore simbolico in occasione del rinnovo dei contratti di livello già alla fine del 1200.»
Che tipo di pane veniva consumato e che cotture si utilizzavano per cuocerlo?
«Abbiamo tracce della panificazione non tanto del mondo contadino ma di quello signorile. È sopravvissuta traccia dei forni nei castelli. Quello che si mangiava, invece, nei villaggi non lo possiamo sapere con certezza.»
C’era qualche prodotto deperibile che veniva comunque richiesto e di cui è rimasta traccia?
«L’unico alimento che noi riteniamo ad alta reperibilità e che ricorreva molto frequentemente nelle richieste signorili sono le uova. Ci sono tracce di registrazioni a riguardo, per esempio noi sappiamo che tutti gli anni per Pasqua ogni maso del signore che controllava castel Tesobo a Roncegno ne doveva consegnare una trentina, quindi le dispense del castello si riempivano di colpo di centinaia di uova, le quali dovevano essere consumate velocemente, magari utilizzandole per confezionare prodotti da forno, o conservate con qualche sistema, probabilmente nell’acqua di calce.»
Quali animali da carne venivano maggiormente allevati?
«Il suino era l’animale da carne di gran lunga più diffuso in tutto il Medioevo. E questo perché la sua è una carne che si presta a una maggiore trasformazione e conservazione.
«Altra carne molto consumata era quella degli ovini. Il vescovo si faceva mandare anche agnelli, soprattutto in certi periodi dell’anno.»
Zuppa - polenta.
Nel Basso Medioevo potevano cacciare tutti come nell’Alto Medioevo?
«A un livello generale si può dire che fra Alto e Basso Medioevo la caccia come attività era diventata un privilegio sempre più nobiliare. Nel Basso Medioevo si restrinse lo spazio del bosco, aumentò invece il coltivo, quindi l’accesso alla foresta diventò un privilegio quasi esclusivo dell’aristocrazia.
«In realtà lo sfruttamento del bosco sulle Alpi è una cosa che riguardava soprattutto le comunità rurali, anche se effettivamente attività come la caccia non competevano alla comunitates.
«Per il Trentino abbiamo fonti molto tarde, ad esempio nel ‘500 gli Spaur del ramo di castel Flavon codificarono quello che poteva cacciare chiunque e quello che potevano cacciare solo loro e quello che, in caso di abbattimento accidentale doveva fare il suddito nei confronti del castello, consegnare per esempio la testa e la zampa dell’orso.»
Che significato assumeva il mangiare e il bere assieme nei banchetti dei signori medievali?
«Il banchetto dei nobili sia nell’Alto che nel Basso Medioevo sostanzialmente era ostentazione della quantità di cibo che il signore poteva permettersi, era un momento in cui doveva emergere chiaramente il suo status.»
E il pranzo monastico?
«Il pranzo monastico, invece, era il momento in cui la comunità dei monaci si radunava. Non era ostentazione ma raccoglimento; a differenza del banchetto signorile il pasto dei monaci doveva essere consumato in silenzio, doveva essere sobrio, il pasto era per i monaci un momento di meditazione.
«A tavola il monaco non doveva mai esagerare per una questione di modestia, doveva inoltre mangiare poca carne. Questo anche per adeguarsi alle prescrizioni del calendario liturgico.
«L’aristocratico poteva mangiarne molta, al contrario, si riteneva che la carne gli desse forza, vigore anche dal punto di vista sessuale. Mentre il monaco naturalmente da questo si doveva astenere.»
Il pesce era di cattura o veniva allevato?
«C’erano dei vivai, tuttavia troviamo traccia nelle fonti più che altro di concessioni di pesca.»
Che influenza ha avuto il Cristianesimo nella dieta alimentare?
«Il pesce era associato al mangiare di magro ed era per questo motivo presente nella dieta monastica. Si riteneva che il pesce non avesse sangue, ecco perché i monaci lo preferivano alla carne. Il tabù riguardava il sangue contenuto nella carne.»
Che testimonianze abbiamo di elementi di distinzione sociale nell’alimentazione territoriale di cui si ha traccia?
«I signori e i contadini mangiavano più o meno le stesse cose, variava sicuramente la quantità del cibo. Sulla qualità non possiamo fare discorsi molto specifici in mancanza di fonti certe, anche se non manca qualche traccia di tipo archeologico.
«Sono stati per esempio condotti degli scavi presso il Castello di Drena, in cui sono state ritrovate le ossa di molti animali selvatici. Questo si adatta bene allo schema alimentare che possiamo tracciare del Basso Medioevo, in cui la caccia diventa un privilegio signorile; il signore mangia il cervo, mentre il contadino non lo mangia più. Altri segni di distinzione non credo se ne possano identificare.»
C’è chi dice che si dovrebbe tornare a un consumo di «cibo a chilometro zero». Cosa pensa a riguardo?
«Mi dà un po’ fastidio la retorica del cibo a chilometro zero, perché presuppone una ricchezza generalizzata che nel passato non era neanche vagamente possibile e in molte zone del mondo non è possibile tuttora. La possibilità di fare arrivare il cibo da molto lontano è stata una delle cose che ha permesso lo sviluppo del mondo occidentale.
«Questa ricerca a tutti i costi del cibo a chilometro zero è una specie di lusso che possiamo permetterci ora, dimenticandoci che se veramente noi ci basassimo sul chilometro zero torneremmo a un tipo di alimentazione che è quella del contadino altomedievale, con l’aggravante, per noi popolazioni delle Alpi, di disporre di varietà di cibi molto limitata.
«Senza contare poi che quando l’alimentazione era in gran parte a chilometro quasi zero la larghissima maggioranza della popolazione era impegnata nella produzione del cibo e lo faceva per quasi tutto il tempo.
«Scherzando, mi chiedo quanti tra noi preferirebbero veramente scambiare la propria occupazione con il lavoro in campagna aiutati solo da un bue e da una zappa di legno per poi ristorarsi con una zuppa di siligo.»
Progetti editoriali futuri?
«In questo momento sto lavorando a un progetto che vede coinvolti oltre a me altri studiosi, fra cui Landi e Bettotti, il coordinatore della ricerca.
«È uno studio sulle signorie rurali trentine nel Trecento-Quattrocento, io mi occupo di un aspetto territoriale, che è quello delle signorie della Valsugana e del rapporto tra signori e comunità rurali.
«Il volume verrà pubblicato presumibilmente nel 2020.»
Daniela Larentis – [email protected]