«Solo le relazioni ci salveranno» – Di Daniela Larentis

Interessante confronto al Festival dell’Economia a Casa della Sat, a cura dell’Alleanza per le Pari Opportunità della Regione autonoma Trentino-Alto Adige

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Sabato 4 giugno, a Casa della Sat, nel cuore della città di Trento, si è tenuto un interessantissimo confronto dal titolo «Solo le relazioni ci salveranno!».
Alta scolarizzazione, alta creatività e forte investimento in innovazione sono i tre ingredienti suggeriti da molti economisti per promuovere la crescita dei luoghi.
Tuttavia, allo stesso tempo, c’è il rischio che, anche se osservate queste tre condizioni, si formino dei «non-luoghi».
Su questo punto l’Alleanza per le pari opportunità della regione autonoma Trentino-Alto Adige, con gli interventi del saggista Riccardo Mazzeo e della scrittrice Mariapia Veladiano, ha dato il proprio contributo indicando l’antidoto a tale eventualità nella solidarietà, nel senso di appartenenza a una comunità e nel rispetto delle differenze di genere, in contrasto degli stereotipi radicati e relativi all’uomo e alla donna.
 
«In un’ottica di un luogo di crescita mettere in primo piano il rispetto delle differenze di genere – ha osservato Riccardo Mazzeo – per contrastare gli stereotipi della società patriarcale ancora radicati nelle nostre comunità: non solo per le donne, ma anche per gli uomini che sono ancora soggetti a un topos culturale che li vuole figure forti e autorevoli e leader incontrastati.
«Quindi appianare la difficoltà di relazione tra uomini e donne è il primo passaggio da fare per trasformare i luoghi in luoghi di crescita effettiva.»
Saper vivere i luoghi con qualità di relazioni è il suggerimento dato da Mariapia Veladiano.
«La casa, la chiesa, l’associazione sono alcuni dei luoghi che noi pensiamo di abitare, ma invece li attraversiamo di corsa – ha affermato – e diventano luoghi delle relazioni che saltano.»
«Tutto il nostro vivere – ha poi aggiunto – è caratterizzato dalla retorica dello stare al passo, di dovere seguire il mondo e non pensarlo. Una modalità che rende nella scuola gli studenti obbligati alla competitività e che non corrisponde alla nostra vera natura.»
 
Nell’occasione, abbiamo posto alcune domande alla scrittrice Mariapia Veladiano, la quale verrà presentata domenica 19 giugno 2016, alle 12.15, dalla collega giornalista Luciana Grillo nell’ambito del Trentino Book Festival, a Caldonazzo (Trento).
La scrittrice, laureata in teologia e filosofia, preside di un istituto scolastico, prima di «Una storia quasi perfetta» (Edizioni Guannda) ha scritto il romanzo «La vita accanto» (Einaudi Stile Libero, 2011), «Il tempo è un Dio breve» (Einaudi Stile Libero, 2012), «Messaggi da lontano» (Rizzoli, 2013), «Ma come tu resisti, vita» (Einaudi Stile Libero, 2013), «Parole di scuola» (Edizioni Erickson, 2014).
 
«Una storia quasi perfetta»: da dove nasce l’idea di questo romanzo?
«Non faccio mai una progettazione a tavolino, l’idea di questo romanzo in realtà è di qualche anno fa. Il potere oggi seduce, seduce le donne, seduce gli uomini.
«Ho messo in campo questa donna, Bianca, la protagonista, che si innamora davvero: è una donna che dipinge, che insegna, ha un bambino di otto anni.
«Si innamora di un uomo di potere, il quale esercita il potere attraverso il possesso, come prevaricazione. E’ la messa in gioco di due mondi che si scontrano.
«Non è la storia del seduttore e della sua vittima, ma quella di due mondi che quasi non possono parlarsi.»
 
Che idea ha lei della perfezione e della bellezza?
«Ogni amore nasce sotto il segno di una perfezione desiderata e sognata, dopodiché è chiaro che la perfezione non c’è, la perfezione si sposa bene con quel quasi del titolo.
«La bellezza è tutto ciò che permette di vivere. L’espressione bellezza è molto compromessa oggi, perché rimanda al concorso di bellezza, alla cura di bellezza ecc.
«La bellezza, invece, è anche bellezza interiore, bellezza nei rapporti. La lingua ci aiuta, pensiamo all’espressione linguistica quella è una bella persona e al suo significato, si riferisce a una persona che fa star bene nella vita, non importa che sia vecchia o giovane, bella o brutta: quella è la bellezza. La bellezza ha a che fare con un riconoscimento dell’altro, non solo con la forma.»
 
Come mai nel libro tutti i personaggi hanno un nome, tranne il protagonista maschile?
«Sono andata avanti a scrivere e a 3/4 del romanzo mi sono resa conto che non gli avevo ancora attribuito il nome.
«Lui il nome in realtà ha rischiato di averlo: la mamma lo voleva chiamare Giovanni, ma non ha potuto per una ragione che non riveliamo.
«I nomi sono importantissimi, declinano e disegnano la persona. In questo caso il protagonista maschile fa fatica a uscire dal suo ruolo, anche se la possibilità di cambiare c’è e il momento migliore per poter cambiare è quando si è profondamente innamorati, in quel momento tutto è possibile.»
 
Il linguaggio non è mai neutro, nella prospettiva del sociologo francese Bourdieu il linguaggio non nomina semplicemente le cose, esprimendo un contenuto, è una forma di potere simbolico: che peso hanno le parole nel suo libro?
«In generale in tutti i miei libri le parole sono fondamentali. Il lavoro principale della scrittura è quello di trovare le parole giuste per quella storia. Le parole disegnano le nostre vite.»
 
Anche i nostri pensieri? Secondo l’ipotesi della relatività linguistica formulata dal linguista e antropologo statunitense di origine tedesca Edward Sapir e del suo allievo B. Lee Whorf, il linguaggio struttura la nostra visione del mondo, lei è d’accordo?
«Certo. Noi non usiamo le parole, sono loro che ci usano. Il nostro linguaggio di oggi è molto povero, è duale: bello/brutto, ricco/povero, buono/cattivo, italiano/straniero, amico/nemico ecc.
«Quando ho poche parole a disposizione non dico quello che voglio o quello che penso: dico quello che posso. E’ come quando si va all’estero e si conoscono mille parole, dovendo con quelle mille parole dire tutto è impossibile esprimere la profondità di un pensiero, esprimere le sfumature.
«Il linguaggio dei Tuareg ha molti modi per definire per esempio l’acqua, gli Inuit per definire la parola neve ecc. Il fatto di conoscere molte parole ci permette di dirci e di raccontare quel che siamo, al contrario, quando ne conosciamo pochissime c’è un misconoscimento di noi stessi e anche degli altri.»
 
Daniela Larentis – [email protected]