110 anni fa l’anno di sangue per l’Italia: il 1915 – Quinta parte
Gli ultimi tentativi diplomatici per evitare la guerra, le ultime volontà per dichiararla

Dalla prima pagina del Corriere della Sera dle 24 maggio 1915.
L’Italia aveva firmato il Patto di Londra il 26 aprile 1915 senza
alcuna garanzia che venisse rispettato dagli alleati, mentre questi
pretendevano subito l’intervento dell’Italia in guerra. La situazione
era critica perché non eravamo pronti e perché non potevamo più
tirarci indietro.
La Russia aveva subito perdite enormi e il
pericolo era che se la Germania avesse messo fuori gioco il nemico a
oriente, si sarebbe riversata contro le linee francesi.
Per questo
all'Intesa era indispensabile l’immediato intervento armato
dell’Italia, che avrebbe obbligato la Duplice Monarchia a distogliere
truppe dal fronte russo. Lo stesso Conrad sapeva di dover concludere
la gigantesca battaglia in corso entro un mese, così da potersi
dedicare alla guerra con l’Italia per infliggere la giusta punizione che si meritava per il «tradimento».
Come
abbiamo detto nelle puntate precedenti, non si trattava di tradimento
(e comunque la Germania non l'ha mai ritenuto tale). La guerra era
stata voluta dall'Austria: sicuramente non si poteva parlare di
aggressione da parte della Serbia.
E così, quando ormai la
situazione sembrava irreversibile, a maggio Conrad inviò a Roma
un’ultima proposta di pace.
Stavolta non più «a babbo morto» - cioè a
guerra finita a vinta - ma subito. Beh, «subito» era un parola troppo grossa… Ecco infatti che cosa accadde in quei giorni.
Il 18 maggio il diplomatico tedesco von Bülov si era recato dal
Ministro degli Esteri italiano Sonnino per pregarlo di dare lettura
un’ultima volta alla proposta inviata dal Ministro degli Esteri
austriaco, Barone Burian. Sonnino e il Presidente del Consiglio
Salandra si recarono al Quirinale per discutere la proposta di Vienna,
ma venne confermata la posizione politica del Governo.
L’indomani, 19 maggio, di fronte a tanto ostinato silenzio,
l’ambasciatore austriaco a Roma, barone Macchio, inviò alle redazioni
italiane il testo della proposta di Vienna in modo che il Paese si
rendesse conto di cosa si stava rifiutando il governo italiano.
Il comunicato, in buona sostanza, portava con sé questa grossa novità a parziale modifica delle precedenti proposte di pace:
«Art 14 – Le
commissioni miste di cui si tratta nell’articolo precedente
cominceranno i lavori immediatamente dopo la conclusione di questo
accordo. La
consegna dei territori ceduti avrà luogo subito dopo la ratifica delle
decisioni delle commissioni e dovrà essere terminata nello spazio di
un mese.»
La proposta di pace (che il governo italiano
non aveva voluto né accettare né rendere pubblica), portava dunque la
grossa novità della cessione «quasi» immediata dei territori
concessi all'Italia se avesse mantenuto la neutralità (per la
precisione si trattava del Trentino e di una striscia di terra
sull’Isonzo meridionale).
Poteva sembrare il superamento dello
scoglio rappresentato dalla clausola «a guerra finita e vinta»,
argomento che l’ambasciatore si augurava potesse rinvigorire i
movimenti pacifisti italiani, che si erano ormai sopiti quasi del
tutto.
Ma quel «mese dall’inizio dei lavori» offrì al Governo
l’appiglio per respingerla. Ancora una volta, per il governo si parlava
di promesse non immediate, e questa fu la versione che Salandra diede
ai giornali.
Il parlamento italiano alla dichiarazione di guerra.
In realtà c’erano due altre ottime ragioni per respingere l’offerta.
La
prima era che i servizi di informazione italiani avevano fatto
sapere che il mese chiesto da Conrad serviva per consolidare la
battaglia di Gorlice. Dopodiché poteva inviare truppe al confine
italiano. Insomma, secondo tali fonti era una trappola.
La seconda
era insuperabile: il Parlamento aveva ratificato in extremis il Patto
di Londra che era stato firmato di segreto tre settimane prima.
L’Italia non poteva più tirarsi indietro.
Come sappiamo col senno
di poi, l'Italia avrebbe potuto farlo. Certo avremmo fatto una
brutta figura, ma non peggiore di quella che avrebbero fatto gli
alleati alla fine della guerra, quando non mantennero assolutamente
la loro parola data all'Italia.
Ma ecco che cosa era successo in Parlamento in quei giorni convulsi e drammatici che precedettero la dichiarazione di guerra.
Il
Patto di Londra, firmato il 26 aprile, obbligava l’Italia a entrare
in guerra entro un mese dalla sottoscrizione dell’atto. Quindi entro
il 25 maggio.
Pare incredibile a raccontarlo oggi, ma fino alla
prima decade di maggio del Patto di Londra non sapevano nulla né il
Parlamento né il popolo italiano. Ma cosa aspettavano? Le ragioni
politiche c'erano.
Se la maggioranza del paese era ormai apertamente
per la guerra, la maggioranza dei deputati e dei senatori era
contraria alla guerra.
Nei sondaggi fatti con le opposizioni
politiche contrarie alla guerra, Salandra aveva trovato un muro
invalicabile. Non c’era tempo per sciogliere le Camere e adire a nuove
elezioni e il Parlamento sarebbe stato riaperto il 20 maggio.
Salandra
si accorse di essersi infilato in un cul-de-sac e dopo gli ultimi
tentativi spesi per trovare l’appoggio della maggioranza, si trovò
costretto a rassegnare le proprie dimissioni. Ed era già il 13 maggio…
Il
Re avviò immediatamente le consultazioni, rassegnato ormai anche lui
alla pessima figura che l’Italia avrebbe fatto sia in un caso che
nell’altro, cioè con un presidente pacifista costretto a entrare in
guerra per via del trattato, o deciso a mantenere la pace tradendo
l’accordo internazionale.
A venirgli in aiuto fu l’opinione pubblica e in particolare Gabriele D’Annunzio che la trascinò dalla sua.
Il
Primo Maggio di quell’anno la Festa del Lavoro era passata quasi
inosservata, schiacciata dalle contromanifestazioni organizzate proprio
da D’Annunzio in occasione del 55esimo anniversario della Spedizione
dei Mille. Dalla Liguria partì la campagna del Vate, che giunse
infine all’Hotel Regina di Roma per organizzare meglio la
sollevazione di popolo.
Così, mentre il Re cercava un nuovo
presidente del Consiglio che gestisse la pace (come voleva il
parlamento), l’opinione pubblica era montata al punto che nessuno dei
politici contrari alla guerra si sentiì di accettare l’incarico.
Giolitti rinunciò all'incarico il 14 maggio. L’onorevole Marcora vi rinunciò il 15 maggio, l’on. Paolo Boselli lo rifiutò il 16.
Ma a quel punto era chiaro a tutti che anche il parlamento si sarebbe adeguato alla volontà del popolo.
Così, alle ore 15.20 del 16 maggio 1915, l’agenzia de Stefani diramava il comunicato «Sua Maestà il re ha respinto le dimissioni presentate dall’on. Salandra».
Il presidente interventista riassumeva l’incarico all'ultimo momento.
Era la guerra e le capitali degli Imperi Centrali si prepararono al peggio.
La
Camera dei deputati del Regno d'Italia riaprì regolarmente il 20 maggio
1915. Ben 482 deputati gremivano l’aula e negli spalti il pubblico si
pigiava per assistere alla seduta storica.
Salandra lesse la
relazione che ripercorreva la recente storia della nostra neutralità,
«necessaria prima, insostenibile poi», concludendo con una calorosa
invocazione alla concordia di fronte al difficile momento per la
patria.
Il ministro degli Esteri Sonnino riferì le trattative svoltesi dal 9 dicembre in poi.
Per la maggioranza intervennero l’on. Boselli e l’on. Barzilai (nato a Trieste…).
Per
la minoranza neutralista presero la parola l’on. Filippo Turati,
socialista ufficiale, e l’on. Ciccotti, socialista indipendente.
Quindi
il presidente del Consiglio chiese di mettere ai voti l’intervento
dell’Italia a fianco di Francia, Regno Unito e Russia, contro l’impero
Austro Ungarico (fino all’ultimo si cercò di evitare la guerra contro
la Germania).
Interrogati mediante appello nominale, 407 deputati approvarono il disegno di legge, 74 votarono contro. Uno si astenne.
Il 21 maggio il Senato confermava le decisioni della Camera con 262 voti favorevoli e 2 contrari.
Il primi fanti, il 24 maggio.
Il giorno seguente veniva proclamata la mobilitazione da compiersi tra il 23 e il 24 maggio.
In
pari tempo veniva dichiarato lo stato di guerra nelle province di
Belluno, Brescia, Ferrara, Mantova, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza,
nonché le isole e le coste dell’Adriatico.
Il 23 maggio,
l’Austria - respinti i sacchi contenenti la corrispondenza
proveniente dall’Italia - si affrettava a interrompere le ferrovie
del Brennero e della Valsugana, e tutte le linee telefoniche e
telegrafiche tra i due Paesi.
Il 23 maggio il nostro ambasciatore a
Vienna, duca d’Avarna, si recava dal Ministro degli Esteri austro
ungarico e gli lesse la dichiarazione di guerra firmata dal Re
d’Italia. Restituì i passaporti diplomatici e salutò, commosso, il
ministro barone Burian.
L’Ambasciatore austro ungarico in Italia, barone Macchio, restituiva a sua volta i passaporti e partiva per Vienna.
Anche se per strade diverse e in tempi indefiniti, pure il Conte Cadorna lasciava Roma diretto, virtualmente, a Vienna.
Il 24 maggio il re diramava agli italiani il suo proclama.
«L’ora
solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. Seguendo l’esempio
del mio grande avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di
terra e di mare con sicura fede nella vittoria che il nostro valore,
la nostra abnegazione, la nostra disciplina sapranno conseguire.»
All’alba del 25 maggio, Gabriele d’Annunzio scrisse: «La nostra vigilia è finita. La nostra ebbrezza comincia.»
Guido de Mozzi.
(Link alla puntata precedente)